In guerra e tra i più poveri con Medici senza frontiere

Negli scenari più difficili del mondo, dalle guerre a zone remote, dove la povertà fa diventare un’impresa quelle che nel mondo occidentale sono cose di routine. Come bere acqua potabile, per esempio. Medici senza frontiere affronta emergenze di ogni tipo, in ogni angolo del pianeta. L’attività di base è costituita dalla costruzione di ospedali, dall’assistenza medica e dalla formazione del personale locale, dove i sistemi sanitari sono di fatto inesistenti.
L’altra sera, a Pordenone, nell’ex tipografia Savio di via Torricella, quattro operatori dell’organizzazione non governativa hanno raccontato il lavoro in prima linea in Asia e in Africa. Chiara Pravisani, medico anestesista di Udine, l’ultima volta è partita per una missione in Pakistan, in una zona tribale dalle parti di Peshawar. In questa terra a forte presenza talebana ha operato con gli usi e costumi del Paese, ma con gli standard di sicurezza delle nazioni più avanzate. Fuori dell’ospedale con i vestiti tradizionali, che scoprono solamente gli occhi, in sala operatoria con lo stesso abbigliamento utilizzato nelle strutture sanitarie italiane.
In una zona come il Pakistan l’operato di Medici senza frontiere abbatte anche i muri culturali. La presenza di un medico donna riesce a far andare qualche donna in più all’ospedale, «le ultime tra gli ultimi» che difficilmente si fanno curare, soprattutto se lo staff medico è composto da uomini. Negli ospedali di Msf, però, anche per i medici è una scuola continua. Dove si impara l’arte di arrangiarsi, perché non c’è un ambulatorio per ogni specializzazione: bisogna gestire ogni tipo di emergenza. E per ottenere i risultati, la grande abilità dei medici non basta. Fuori delle sale operatorie, c’è una grande macchina logistica che si muove in tutto il mondo a tempi da record. Dalla creazione delle strutture dove c’è un’emergenza o un progetto da realizzare, per arrivare alla spedizione dei materiali e dei medicinali.
Luca De Simeis, viceresponsabile di progetto, è tornato da poco dal Tajikistan, ex repubblica dell’Unione Sovietica, dove è stata avviata una campagna per curare e prevenire l’Hiv e la tubercolosi. Un’operazione complessa, che passa dalla corretta educazione del personale locale, considerando che la gran parte dei bambini sieropositivi ha i genitori negativi e ha contratto il virus negli ospedali di un sistema sanitario decaduto dopo lo scioglimento dell’Urss.
Daniele Zambon, logista, ha lavorato in America Latina, Medio oriente e Africa. Scenari nei quali il lavoro quotidiano richiede molte precauzioni. Come nell’avventura in Sud Sudan, dove con la stagione delle piogge c’è il rischio di rimanere isolati per sei mesi consecutivi.
Medici senza frontiere, però, opera anche vicino a casa. Come ha raccontato Roberto Buttignol, anche lui logista, il quale ha affrontato l’emergenza degli sbarchi dei migranti in Grecia e il recupero nel Mediterraneo dei barconi partiti dalla Libia. Dall’Europa agli angoli più poveri del mondo, Medici senza frontiere fa vanto della sua posizione autonoma, che non dipende da nessun potere politico, considerato che il 90 per cento del budget proviene da donazioni di privati. E ha un approccio neutrale, di chi aiuta senza fare alcun tipo di distinzione.
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