Il Consiglio di Stato: Eluana Englaro aveva il diritto di morire in Lombardia

ROMA. Con più di cinque anni di ritardo (in totale fanno 23), anche l’ultimo dubbio sul caso Eluana è chiarito. Il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimo il decreto voluto da Roberto Formigoni, allora governatore della Lombardia, con cui vietava a Eluana Englaro di sospendere le terapie, come la Cassazione l’aveva autorizzata a fare.
Una cacciata, una costrizione all’esilio, una violenza contro una donna in stato vegetativo da quasi 18 anni. Ma soprattutto un atto che non aveva titolo per essere ordinato, scritto, firmato da un ente pubblico. Fu quel “no” di Formigoni che portò Eluana qui in Friuli, dove un popolo diviso – ma rispettoso - la accolse.
E – dopo la sentenza è ormai chiaro – lo fece rispettando la legge, la costituzione e i diritti di quella donna immobile. Era buio e pioveva quella sera di metà novembre del 2008.
Allo studio degli avvocati Giuseppe e Massimiliano Campeis, nel cuore di Udine, entra una Bmw grigia. Sono le otto passate. Scende un uomo, solo, che ha guidato sotto la pioggia da Lecco. Quell’uomo è Beppino Englaro, il papà di Eluana. È nato a Paluzza, ha lavorato in Svizzera e da una ventina d’anni vive a Lecco.
«Avvocato», dice con un filo di voce, «le parlo a nome di mia figlia: la Lombardia ci vieta di liberarla dalle terapie che le infliggono da 17 anni contro la sua volontà. Mi può aiutare lei a portarla qui in Friuli, nella nostra terra?». Il legale lo fissa per pochi istanti, poi risponde: «C’è uno Stato che non vuole attuare una sentenza della Cassazione, che è lo Stato».
Si ferma un istante. Poi aggiunge: «Signor Englaro, se non servono a questo gli avvocati…». È così che quella notte il caso Englaro esce dalla Lombardia ed entra in Friuli. Tutto a causa di quel “no” politico di Formigoni che, a distanza di troppi anni, è stato giudicato illecito.
Un’invasione delle idee personali di un governatore e del suo direttore generale, quel Carlo Lucchina oggi rinviato a giudizio per gli scandali – quelli sì – della sanità lombarda, nella non-vita di una donna indifesa, Eluana, che il 18 gennaio 1992 era uscita di strada con la propria auto perdendo per sempre conoscenza.
Oggi, dopo quel decreto bocciato dai magistrati, in Friuli si riaccende il dibattito su quei giorni. Giorni in cui una piccola regione ha dato a quella piccola figlia della sua montagna l’aiuto che nessuno, in alto, era stato in grado di darle.
Un aiuto che ebbe molti protagonisti friulani, anzi carnici. Carnico Englaro, carnico Campeis, carnico il medico che staccò il sondino, Amato De Monte. E carnico il collega-governatore di Formigoni, Renzo Tondo, anche lui del Pdl berlusconiano all’epoca in grande spolvero. Ma Tondo non fece come il Celeste.
Non seguì gli ordini di Roma. Non ascoltò nemmeno il suo assessore d’allora, Wladimir Kosic, che come i lombardi voleva fermare Eluana. Tondo fece di testa sua, da carnico. Anche se di pressioni dall’alto ne ricevette tante.
Basti ricordare il giorno dell’inaugurazione del Passante di Mestre, quando Silvio Berlusconi – all’epoca premier – e l’allora ministro della salute Maurizio Sacconi, entrambi schierati per impedire l’attuazione della sentenza di Cassazione, si chiusero a capannello chiedendogli di fare tutto il possibile perché la Regione autonoma fermasse Eluana e suo padre.
Tondo ascoltò, tornò a Trieste meditabondo, ma alla fine non obbedì. Convinto – e oggi la sentenza del Consiglio di Stato gli dà ragione – che l’ente regionale non avesse titolo per interferire. Né per vietare ciò che la Cassazione aveva dopo 13 anni di battaglie giudiziarie consentito a Eluana.
Oggi ne è ancora convinto: «La sentenza conferma che l’atteggiamento di grande rispetto istituzionale che ho tenuto all’epoca, distaccando le ragioni politiche da quelle del mio ruolo di governatore, era giusto», dice Tondo. «Beppino Englaro era depositario di un diritto rispetto al quale nessuno poteva opporsi. E io, nonostante le pressioni che ricevetti, restai fermo. Devo dire che oggi sono sollevato, perché a distanza di anni i fatti mi hanno dato ragione».
Già. I fatti. Quelli che nella sentenza del Consiglio di Stato sono elencati con dovizia di dettagli: «È una sentenza molto importante sul piano del diritto», dice l’avvocato Vittorio Angiolini, il costituzionalista che ha seguito il ricorso.
«I magistrati stabiliscono che la Regione Lombardia era tenuta a fornire le cure alla paziente Englaro e che il diritto di avere una cura comprende, in se stesso, il diritto di interromperla. Questo significa che Eluana avrebbe dovuto trovare in Lombardia quel tipo di assistenza che trovò invece solo a Udine».
Già, perché in un Paese che gridava, parlava, elucubrava solo il Friuli agì nel concreto, trovando accoglienza ad Eluana a “La Quiete”. Fuori c’erano i laici e c’erano i cattolici. Gli striscioni pro e quelli contro. Si dissero messe per “salvare” Eluana e si rispolverò la Costituzione per garantirle il rispetto. Ma nessuno, in Friuli, usò il potere politico per fermare un diritto.
Carta dopo carta, documento dopo documento, ci si occupò solo della paziente Englaro Eluana Jolanda Giulia, senza pensare alla bufera politica che in quei giorni riempiva i giornali di mezzo mondo, le aule del parlamento, le trasmissioni tv, i telegiornali.
È per questo che si può affermare che la sentenza del Consiglio di Stato è una censura per Formigoni (la famiglia Englaro sta valutando le richieste di risarcimento danni), ma al tempo stesso è una “promozione” per tutto il Friuli: «Si è comportato secondo legge, anticipando ciò che, anni dopo, viene scritto in una sentenza, molto bella», spiega Giuseppe Campeis.
Anche per chi non era d’accordo. Anche per chi non l’avrebbe fato. Anche per quelli che, in queste ore, non paghi di quei 18 anni di sofferenze, continuano a strumentalizzare la sentenza.
Per farsi pubblicità, magari dal parlamento, e per continuare a negare ciò che ormai è chiaro a tutti: il comportamento della nostra terra con Eluana non fu solo opportuno, ma fu dovuto. Negarle quell’aiuto, invece, sarebbe stato calpestare per l’ennesima volta un diritto.
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