«I mendicanti? Sono un insidia per le auto», ma l’avvocato leghista perde la causa

Aveva chiesto al Comune di Udine il risarcimento del «danno esistenziale» causato dalla presenza degli accattoni agli incroci. La Cassazione ha rigettato il ricorso: sbagliato equipararli a un tronco sull’asfalto, va rispettata la dignità degli ultimi
Udine 28 Luglio 2011 questuanti Copyright PFP
Udine 28 Luglio 2011 questuanti Copyright PFP

UDINE. Ha paragonato i mendicanti che stazionano agli incroci semaforici a un «tronco caduto sull’asfalto» e ha chiesto al Comune di Udine il risarcimento del danno esistenziale «per il disagio e l’ansia» che la loro presenza gli avrebbe procurato come «automobilista e fruitore delle strade pubbliche».

La battaglia legale di Giuseppe Turco, avvocato di Udine e strenuo militante della Lega Nord, è arrivata fino in Cassazione. E qui, in questi giorni, si è però anche conclusa con un nulla di fatto e con la sua stessa condanna, anzi, a rimborsare le spese processuali sostenute da palazzo D’Aronco per complessivi 2.200 euro.

Una questione innazitutto di «sicurezza» quella sollevata dal legale, che nella causa scatenata contro l’amministrazione comunale, con atto di citazione del luglio 2011, partiva dall’incrocio tra viale Cadore e viale Leonardo da Vinci per denunciare «la pratica di pedoni ben vestiti e ben pasciuti, anche deambulanti con stampella/e, muniti di cartello, marsupio e berretto» di chiedere denaro agli automobilisti.

A suo modo di vedere, la colpa sarebbe stata appunto del Comune che, come ente proprietario della strada, non avrebbe adottato «misure idonee a impedire o far cessare questi comportamenti molesti, oltre che pericolosi per la circolazione».

Lungi dall’allinearsi alla sua tesi e dal cedere alla pretesa di 2.500 euro di danni, palazzo D’Aronco si era costituito, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Il 22 agosto 2012, il giudice di pace aveva declinato, appunto, in favore del giudice amministrativo.

E il 12 settembre 2013, il tribunale di Udine ne aveva rigettato l’appello, osservando tra l’altro come Turco non lamentasse un danno «derivante direttamente dalla cosa in custodia» (ossia, dalla strada), bensì la mancata adozione del Comune di misure atte a interrompere la pratica dell’accattonaggio. In altre parole, lo sgombero dei questuanti dalla pubblica via.

E «l’omesso esercizio di poteri autorativi – a parere del tribunale – non può essere considerato un mero comportamento materiale».

Nè maggiore fortuna ha avuto il suo ricorso in Cassazione. «Le censure – osservano gli “ermellini” – muovono dalla premessa che “i pedoni che domandano (con insistenza) i soldi sulla strada comunale” siano equiparabili “al tronco caduto sull’asfalto e perciò fuori posto rispetto al diritto di circolare dell’automobilista. Il Comune, quindi, sarebbe “tenuto alla materiale attività di sgombero della carreggiata da tali pericoli/insidie per garantire la sicurezza e fluidità del traffico».

Per la Corte si è trattato di una premessa erronea, «essendo del tutto priva di fondamento l’equiparazione tra cose ingombranti e lavavetri all’incrocio o al semaforo».

La spiegazione che segue suona quasi quanto una lezione di morale e buona prassi sociale. «Quando viene in rilievo un’attività umana espressione di una forma di mendicità e di una “semplice richiesta di aiuto” da chi si trova in povertà – recita la sentenza romana –, non è pertinente il richiamo al dovere dell’ente di porre in essere un mero comportamento di “pulizia delle strade”».

In ballo, infatti, c’è un ambito «in cui l’azione amministrativa, pur indirizzata alla tutela di beni pubblici importanti (incolumità e sicurezza urbana), deve muoversi nel necessario rispetto della dignità della persona umana e dei diritti degli “ultimi”». Quanto agli aspetti più strettamente giuridici, la Cassazione ha ribadito la competenza del giudice amministrativo.

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