Gli angeli che mettono le ali agli ultimi

Il nome, Giulia, è quello di una bambina che nacque sieropositiva, ma si negativizzò crescendo. Oggi Giulia è una mamma sana, felice, e il suo nome, la sua storia sembrano racchiudere il senso più profondo dell’associazione che da trent’anni, pur mutando pelle, porta il suo nome: trasformare la sofferenza in opportunità e, quando è possibile, in felicità.
Per capire cosa sia l’associazione Giulia onlus, che è nata nel 1988 a Pordenone – tra i fondatori il dottor Carlo Gobitti e Maria D’Andrea – con lo scopo di accogliere quelli che allora erano gli appestati ovvero i malati di Aids, bisogna entrare nel prefabbricato di via San Quirino. Un’ala dello stabile, che è stato riaperto come casa del volontariato, è il porto sicuro di una quindicina di “inquilini”, di altrettanti volontari e di tre operatori. Ma, più in generale, è un porto per chiunque arrivi, un posto in cui ti senti accolto e trovi la forza di ripartire.
Qui i “nuovi appestati” della società, le persone affette da disagio mentale per esempio, ma anche i richiedenti asilo, trovano chi li accoglie e cerca di valorizzare il loro talento. Piccolo o grande a nessuno importa, perché ognuno dà ciò che può. Perché c’è una sola regola in questo porto: non giudicare. L’accoglienza passa attraverso il fare assieme – lavori di cucito, falegnameria, ceramica, grazie ai laboratori che sono stati creati e ai volontari che due pomeriggi la settimana si mettono a disposizione –, ma anche semplicemente facendo festa. «Perché ogni persona è speciale e quindi il giorno del compleanno tutti devono avere una festa e il regalo naturalmente», dice solenne la presidente Paola Costantini.
Impossibile dare un’età ai suoi occhi di un azzurro rubato al cielo, alla forza con cui scandisce il lavoro in rete con enti pubblici, associazioni, privati, per trovare risorse che aiutino a pagare bollette, cure dentistiche, affitto. «Perché le persone affette da disagio mentale si aggravano se non vivono in una condizione dignitosa. Come tutti noi del resto. E allora il mio impegno è quello di trovare risorse per aiutare chi non ha altri cui rivolgersi, cercare di offrire una vita dignitosa a tutti».
I mercatini – l’ultimo fatto al Cro di Aviano –, con i lavori realizzati nei laboratori dagli ospiti e dai volontari, sono uno dei tanti canali attivati dall’associazione. Ma i laboratori servono anche a trasformare una sofferenza, la tristezza, in qualcosa di bello, che trovi l’apprezzamento degli altri. Abu è un giovane della Costa d’Avorio, un richiedente asilo. Nel suo Paese aveva imparato a fare il falegname e ci mostra una bellissima scala realizzata durante il tempo in associazione. Nessuno si sente diverso qua dentro, tutte le persone si sentono semplicemente uniche, sentono di poter fare qualcosa di buono per gli altri e quindi per sé.
C’è un’altra attività, importante, che l’associazione svolge e che è legata agli utenti “storici”, tossicodipendenti, sieropositivi e malati oncologici, quelli che con il tempo – grazie al progredire della medicina – sono diminuiti, ma non scomparsi. Per questo ci sono laboratori anche all’interno del Cro di Aviano e c’è, da parte di tre volontari, l’ascolto attivo dei pazienti ricoverati. «Siamo rimasti in tre volontari, non tutti riescono a reggere l’impatto emotivo di questa attività, ma è giusto che soltanto chi se la sente lo faccia. Un volontario che se ne va per me è una sconfitta – prosegue Costantini – per cui non voglio che nessuno vada in bournout. Ognuno dà quel che puoi, qui non ci sono eroi». E anche se Paola – come raccontano altre volontarie – ha molto del supereroe, non ci sono esami da superare per essere volontari dell’associazione, se non quello di saper accogliere senza pregiudizi. Anche i ragazzi delle scuole superiori si sono avvicinati all’associazione: attraverso il progetto Movi, diventano “volontari per un giorno”. La gran parte dei partecipanti sceglie di trascorrere l’esperienza al Cro, dove viene fatta vedere loro la biblioteca scientifica e quella dei pazienti e dove chi ha compiuto 18 anni può anche partecipare all’ascolto delle persone ricoverate.
«L’ascolto attivo con i malati oncologici – ricostruisce Paola che lo fa da moltissimi anni – richiede la capacità di creare empatia con l’altra persona, senza però farsi sopraffare dalla sofferenza degli altri. Significa imparare a gestire il silenzio, la comunicazione non verbale, perché a volte entri in una stanza, ma l’altra persona non ha voglia di parlare. E allora devi regalare solamente un saluto, un sorriso e saper andare via. Altre volte la tua presenza è quella che fa dire loro: “Grazie, ho passato un bel pomeriggio”». E quel grazie è il carburante dei volontari.
Negli anni sono tante le storie che si sono intrecciate sotto “il tetto” dell’associazione Giulia (prima di via San Quirino la sede era a Casa Serena). Storie fatte di abbracci, ma anche di addii, di sofferenza e di momenti di felicità. Storie che partono da una persona, ma poi coinvolgono tutta una famiglia.
Qualche giorno fa la famiglia allargata di via San Quirino ha regalato a una bambina di dieci anni, orfana di papà – morto a 40 anni per un tumore –, una festa che, con mamma e fratelli, ricorderà per sempre. C’erano la torta, il regalo, la musica per ballare, ma c’era soprattutto chi non l’ha fatta sentire sola. E che le ha insegnato che la vita va comunque assaporata, nonostante il dolore e la paura. Un porto sicuro si può trovare anche nella tempesta. Per riposarsi e ripartire.
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