Fra le rovine di Ronchi e Palmanova

C’era una volta una regione che aveva un aeroporto. I cittadini volavano verso Nord e verso Sud, come da qualunque altro scalo italiano, per le vacanze, per affari, per raggiungere i Paesi degli scambi commerciali. Poi sono venuti gli anni dell’immobilismo.

Un immobilismo legato al “campanile”. Si è parlato di ampliamento, di accordi con il Marco Polo di Venezia, di interscambio con Lubiana (nel frattempo resa più vicina dall’autostrada slovena). Parole, parole, parole. Di fatto lo scalo di Ronchi è un aeroporto fantasma.

I voli sono sempre meno, gli aerei per Roma e Milano - dopo l’accordo fra Alitalia e arabi di Etihad sono più piccoli e spesso di serie B. Al contrario dei prezzi, i più alti d’Italia o giù di lì.

Non serve nemmeno farsi dare le statistiche dalla compagnia di bandiera (se ancora possiamo definirla tale). Basta andare sul motore di ricerca di Alitalia e prenotare un volo per Roma Fiumicino o per Milano Linate.

E questo nonostante i fondi privati che aiutano lo scalo a non cancellare almeno quelle tratte essenziali, per una regione dove l’Alta velocità è un sogno che si ferma a Venezia Mestre.

Bene, ieri erano 350 euro per lo scalo lombardo con un mese buono di anticipo. Per la capitale in media si spende di più che per un intercontinentale verso New York in economy class.

Nel frattempo i pordenonesi, forti di una viabilità più moderna che collega il Noncello al Canal Grande e alla Marca, salgono in automobile e in meno di trenta minuti raggiungono Treviso o, con poco tempo in più, Tessera. Dove i voli sono molti e le tariffe più concorrenziali.

Da Trieste sempre più passeggeri scelgono invece lo scalo di Lubiana, dove l’aria che tira è quella dell’Hub di Francoforte e non certo quella della marginalità italica. Addirittura da Tolmezzo spesso si preferisce salire a Klagenfurt piuttosto che arrivare fino a Ronchi.

La domanda, a questo punto, è la seguente: può un territorio che predica terze corsie, investimenti in logistica, sinergie regionali sul sistema portuale Trieste-Friuli, un territorio che si batte per l’alta velocità ferroviaria e per il potenziamento dell’asse est-ovest rimanere isolato, servito cioè da uno scalo insufficiente che finirà per essere la quinta o sesta pista del Nord-est, a vantaggio (si fa per dire) dei soli udinesi del medio e basso Friuli? La risposta è “no”.

La risposta è che in questo caso il campanile non è servito a nulla. Anzi, ha ritardato le scelte e la visione di insieme. Sono decenni che si parla di un treno veloce Ronchi-Venezia. Sono decenni che si vagheggia di un collegamento con l’est. Due scelte opposte, ma in diverso modo, strategiche che hanno lasciato il posto alla solita melina politica che dura nel tempo, corretta per sfumature di grigio, per progetti che non si realizzano mai.

Nel frattempo leggiamo che il presidente dello scalo Sergio Dressi si gioca il posto di quattro addetti, mentre il management di Ronchi incassa lo stipendio in assenza di una visione strategica. Cosa aspetti il governatore Debora Serracchiani a commissariare il tutto è la questione che cercheremo di sviscerare nelle prossime settimane.

Nel frattempo l’inchiesta del Messaggero Veneto a firma di Maurizio Cescon è solo il primo capitolo di una storia che si lascia intendere lunga, piena di dettagli e capace di schiuderci un quadro ragionato sullo scalo-flop.

A questo punto del ragionamento, però, ci infiliamo pure Palmanova. Che c’entra la città stellata, vi chiederete? C’entra eccome. Perché in una regione dove il “campanile” scatta quando c’è di mezzo un aeroporto - che dovrebbe essere gestito con logiche di macrosistema - ma non scatta invece quando c’è di mezzo il salvataggio in extremis di un monumento mondiale come la fortezza stellata nella Bassa friulana (se si vuole contezza del suo valore basta passeggiare per Tokyo e chiedere «Palmanova, do you know?» per sentirsi rispondere che «yes, we know»), beh significa che in Friuli c’è qualcosa che non va. Riempiamo pagine e pagine - giustamente - su Pompei e sul Colosseo, ma non ci rendiamo conto che il nostro Colosseo sta lì da secoli, a pochi chilometri da Udine. Fortezza divenuta debole, fragile, vulnerabile. Una nemesi della storia. Le mura sorte per proteggerci sono oggi lì a invocare di essere protette. E c’è un sindaco, finora solo, Francesco Martines, che ha dovuto firmare di proprio pugno e assumersi la responsabilità penale per ogni danno ai bastioni e ai 4 mila volontari che hanno aiutato la città a non morire di erbacce, fichi selvatici, incuria, pioggia dopo avere resistito per secoli a invasioni, intermperie e terremoti.

Cari friulani, così non si entra in Europa. Si esce dall’Italia. Ribaltiamo il maleficio dell’isolamento infrastrutturale e culturale. Il Friuli non se li merita. Salviamo i simboli del Terzo Millennio: l’aeroporto che ci porta nel mondo, i bastioni che ci ricordano chi siamo. E da dove veniamo.

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