Filippo Timi: «Il mio Don Giovanni è un mito che incarna il male»

L’attore racconta la sua ultima avventura teatrale. Sarà in scena al Verdi di Pordenone da venerdì 17 in esclusiva regionale

È meraviglioso l’eccesso scenico; è potenza, è coinvolgimento totale, è sguardo ricco. Basta una sedia sopra un palcoscenico per fare teatro, dice il purista della parola che detesta il superfluo. Sarà.

Coloratissimo e sfarzoso il Don Giovanni di Filippo Timi. Tinte su tinte, amalgama di sfumature forti, ti arriva addosso l’irrefrenabile controllo dei sensi.

È proprio suo-suo quest’uomo reso famoso da Mozart, benché comparso in scena alla metà del 1600 ne L’ingannatore di Siviglia di Tirso de Molina, riscritto da lui, su misura. Ribaltò l’Amleto, Timi, va ricordato.

Il perugino è un frenetico della scrittura. «Se alla sera il proposito è quello di buttare giù dei pensieri, raramente mi freno. Il meccanismo è fatale, l’orologio va per i cavoli suoi finché lo degno di un’occhiata: segna le otto del mattino. Pazzesco. Qualcosa di chiaro penetra le finestre, eppure se compongo chi se ne accorge».

Si leggono cose sublimi della messinscena. Chi ne è attratto dopo aver letto queste righe, si segni alcune date: venerdì 17 e sabato 18, alle 21, e domenica 19 alle 16. Un’esclusiva regionale del Verdi di Pordenone (info: 0434.247624).

- Com’è ’sto amore improvviso per il Don più affascinante?

«Casuale, gli sono capitato addosso studiando il male in Hitler, pensa te. Anche Giovanni lo incarna, a suo modo, non riuscendo ad addomesticare gli istinti. Nella prima scena, per consegnarvi un’immagine forte, lo vedremo mentre si sta iniettando una dose di eroina. Non cerca allucinazioni, solamente la morte, svanito ormai qualunque controllo su se stesso. Non si pente, non riesce. O non vuole? Spesso l’uomo vorrebbe ribaltare le sbagliate convinzioni di una vita, ma ciò si rivela una guerra persa».

- Non è da lei questa cupezza...

«Infatti è tutt’altro che cupo. Adoro sviscerare la profondità con un atteggiamento leggero. È Stanislavskij, del quale, nel caso, mi sento un seguace. Il pubblico reagisce come pensavo: ride, partecipa alla festa, non frena affatto, si lascia andare».

- È una delle tante malattie di oggi il cercare l’altrove insidioso.

«La routine ammazza i desideri. Ci si appallottola nel rassicurante spazio. Ma semmai ti salta il trip non ti accontenti di sfiorare i confini del lecito, li oltrepassi. E se cominci a inalare i profumi della trasgressione difficilmente rientri ai box».

- La sregolatezza appartiene ai miti. In quanto tali non devono giustificarsi...

«Mai potranno cambiare. Forgiati così, destinati a una vita in proscenio. Mutazioni minime, ripensamenti impossibili. Miti, come i supereroi dei fumetti».

- Coi classici qual è l’atteggiamento? Puristi o rivoluzionari?

«O ben li pigli e ne fai polpette o ben lasci dentro il respiro originale. L’adattamento furbo è un crimine. Ovvero, quel metà e metà che non risolve. Linguaggi moderni con la parrucca in testa, per fare l’esempio. Assolutamente no. Non sembra, eppure i seicento anni di certi non li senti affatto. Il vantaggio loro è che l’uomo è sempre lo stesso».

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