Ecco chi comanda davvero in Italia

Due giornalisti di Repubblica, Roberto Mania e Marco Panara, hanno scritto un libro sui potenti di Stato

ROMA. Il termine russo nomenklatura, è stato preso a prestito dal latino (letteralmente, elenco di nomi) dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica, per indicare gli uomini che, fedeli al Partito, dovevano ricoprire incarichi di responsabilità e governare un impero vasto come quello Sovietico. Non è un caso che il termine sia trasmigrato, pari pari, nelle nostre società occidentali, a indicare quell’insieme di uomini che, al vertice di Stati, enti, partiti ed anche di entità economiche, presidiano di fatto i meccanismi di comando della società.

Da dove derivi il loro strapotere quest’insieme di uomini, visto che, in teoria, si parla di società democratiche e non oligarchiche, non si sa. Ma oggi incarnano, con la loro presenza e il loro potere, la resa della democrazia, la sconfitta politica e il trionfo di un sistema che governa senza farsi vedere, senza rispondere delle sue azioni e delle sue inerzie. Un potere più forte del governo stesso, dei partiti, del Parlamento e anche della finanza.

Se si legge il libro di due giornalisti attenti come Roberto Mania e Marco Panara (Nomenklatura - Chi comanda davvero in Italia ed. Laterza) si può avere un manuale perfetto di che cosa può essere oggi una nomenklatura e che conseguenze nefaste possa produrre nell’assetto istituzionale di un Paese, come l’Italia, che nel tempo sembra avere vissuto almeno due rivoluzioni, come la Prima e la Seconda Repubblica, senza davvero aver cambiato nella sostanza nulla nel suo sistema di potere e negli uomini che lo comandano. Una tecnocrazia burocratica autoreferenziale, che ha imbrigliato nel suo formalismo giuridico, nella conoscenza e nel governo di astrusi meccanismi amministrativi, il governo del Paese, strappandolo ad una classe politica distratta e incompetente.

Magistrati amministrativi e Consiglieri di Stato, rappresentanti della Corte dei Conti ed esperti giuridici di varia estrazione hanno costituito l’asse di comando sottostante ai governi degli ultimi trent’anni, trasformando la funzione normale di una burocrazia in un oligarchia che si è autoriprodotta nel tempo a dispetto di tutti gli spoil system.

In questi giorni, in cui le cronache scoprono di nuovo un sistema di affaristi che è sopravvissuto allo scioglimento del Pci, del Psi, della Dc e che ha corso parallelo alla politica forse intrecciandosi con essa, il libro di Mania e Panara suona davvero come un racconto di quanto ci sia da cambiare nel sistema italiano perché si possa tornare a parlare di democrazia e non di oligarchia e di classe dirigente anziché di nomenklatura.

Già perché il sistema degli appalti e la giungla di norme che lo governano, la cultura giuridico formale che ha dominato questo settore, “è la stessa cultura - dice oggi Panara - che ha ingabbiato l’amministrazione dello Stato. Non c’è più una relazione tra forma e sostanza. E’ un formalismo procedurale al termine del quale non si sa più se c’è bisogno di un’opera, quanto costa, se è stata fatta a regola d’arte, chi ne risponde. E in questa giungla di ossessioni giuridico-formali alla quale corrisponde una arbitrarietà sostanziale fioriscono gli uomini che costruiscono le loro fortune su un sistema di relazioni occulto”.

I veri legislatori non sono più i governi ma capi gabinetto, responsabili di uffici legislativi, tecnici dei ministeri che guarda caso sono quasi sempre Consiglieri di Stato o magistrati amministrativi e quasi sempre gli stessi in trenta anni di governo. Sono loro che rimbalzano da un ministero all’altro, da un Authority ad un’altra, spesso indifferenti ai conflitti di interesse. Una vera e propria una dinastia di inscalzabili che, in nome del motto attribuito a Mario Missiroli, “I governi passano, i governativi restano” hanno finito per avere in mano le sorti del governo di fatto del Paese.

Sono nomi per lo più sconosciuti alla gran massa, Antonio Catricalà, Filippo Patroni Griffi, Carlo Maliconico, Lamberto Cardia, Sergio Santoro, e che spesso sarebbero rimasti tali se non fossero scivolati su episodi poco edificanti come l’acquisto di case a prezzi popolari (Patroni Griffi), il pagamento di vacanze da parte degli uomini coinvolti nelle malversazioni degli appalti (Maliconico).

“Ogni ministero ha avuto il suo uomo potente, in ogni categoria ci sono le doppie carriere” scrivono Mania e Panara nel racconto rivelatore di questa casta di intoccabili. Basta vedere gli incarichi dell’attuale presidente di quella che dovrebbe essere l’organismo di controllo dello Stato, la Corte dei Conti, Raffaele Squitieri prima capo dell’Ufficio legislativo del ministero delle Politiche Comunitarie, poi capo di gabinetto dei Beni Culturali. O il suo predecessore, Luigi Gianpaolino, nella magistratura contabile dal 1968, che è stato nel gabinetto di ben otto ministri, ma anche componente e poi presidente dell’Attività di vigilanza sugli Appalti pubblici.

Se dai ministeri ordinari si passa al più importante centro di potere del Paese, il Mef, il ministero dell’Economia e delle Finanze, snodo e protagonista della politica dei governi degli ultimi anni dominata dall’assillo di far tornare i conti di Bilancio, la musica non cambia. Anzi diventa ancora più stonata. Perché in quel centro che decide la sorte e la struttura delle leggi, tiene in mano i cordoni della Borsa, conosce, con la Ragioneria generale dello Stato, i conti di un’amministrazione sterminata come quella pubblica italiana, si occupa delle nomine di quello che - e non è poco - è rimasto delle partecipazioni pubbliche nelle imprese.

E’ diventata leggendaria la figura di Vincenzo Fortunato che è stato ai vertici di quell’amministrazione dal 1993 fino allo scorso anno. Pagatissimo, 536 mila euro l’anno, potentissimo per la sua capacità di orientarsi nei meandri di leggi e provvedimenti, temutissimo per il suo rigido controllo su tutta l’attività del ministero, finisce per diventare più importante di ministri che pur si chiamavano Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Vittorio Grilli, Mario Monti.

Il suo ciclo di potere al ministero termina con il governo di Enrico Letta e il suo ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, che capiscono che per cambiare politica forse si doveva proprio partire da lì, dalla struttura di comando dell’amministrazione. Naturalmente Fortunato non resta senza incarichi e non ha di che annoiarsi: va a presiedere la società che dovrebbe dismettere l’immenso patrimonio immobiliare dello Stato.

Matteo Renzi quasi subito capisce la lezione, e cioè che per cambiare qualcosa si deve partire da lì, dalle stanze di Palazzo Chigi. E ingaggia una battaglia per affidare il ruolo di sottosegretario alla presidenza del consiglio a un suo fedelissimo, un medico endocrinologo come Graziano del Rio, e per mettere a capo del Dipartimento affari giuridici e legislativi una donna (primo caso in un sistema di potere ultramaschilista) Antonella Manzione, ex capo dei vigili di Firenze. E’ da loro che comincia la rivoluzione per sconfiggere gli Zar e per conquistare quel Palazzo d’Inverno dell’amministrazione pubblica.

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