E si riapre il “giallo” dell’omicidio del dj: ucciso perchè sapeva

TRIESTE. L’intuizione era arrivata già nel 2004, proprio dagli uffici della Direzione distrettuale antimafia di Trieste. Ma poi, nonostante l’effetto dirompente impresso al corso delle indagini, non aveva retto alla prova dibattimentale.
E così, l’omicidio di Paolo Grubissa, 43enne monfalconese e dj per passione, era tornato nell’alveo dei delitti passionali.
Salvatore Allia, il suo datore di lavoro e titolare dell’impresa di sabbiature Safar, a Monfalcone, originario di Catania, lo aveva ucciso, perchè accecato dalla gelosia per la relazione che si era convinto intrattenesse con la propria compagna. Questo aveva stabilito nel 2005 il verdetto pronunciato dal gup di Trieste Massimo Tomassini.
Oggi come allora, il movente continua a non convincere. E le indagini per associazione a delinquere di stampo mafioso avviate a carico del presunto boss ’ndranghetista Giuseppe Iona potrebbero rivelarsi la chiave di volta per scrivere una nuova pagina di storia criminale in regione.
La tesi ipotizzata dalla Procura triestina è la stessa sostenuta all’epoca dal pm Raffaele Tito (attuale procuratore aggiunto a Uine): Grubissa sarebbe stato eliminato, perchè aveva saputo, proprio attraverso le confidenze della donna di Allia, segreti che non avrebbe dovuto conoscere.
E cioè che il suo datore di lavoro intratteneva business illegali con i Paesi dell’ex Jugoslavia: traffici di armi, per l’esattezza.
Un testimone scomodo, insomma, da mettere a tacere con le buone o con le cattive. Erano state proprio le modalità in cui era stato assassinato e poi fatto sparire a catturare l’attenzione di Tito.
Il corpo del monfalconese era stato trovato il 21 febbraio 2004, con la testa forata da un proiettile, dentro un bidone colmo di cemento e sotterrato vicino a un cantiere edile di Sagrado d’Isonzo. Il caso, tuttavia, era finito sui tavoli della Procura di Gorizia che, riconosciuto in Allia il killer, aveva ritenuto la pista passionale l’unica percorribile.
Di lì a poco, un secondo e ancor più pregnante elemento aveva ridestato le antennine della Dda. Una frase pronunciata al telefono poco dopo l’omicidio e intercettata per caso dagli investigatori, al lavoro su un affare di armi, aveva convinto Tito a spostare a Trieste la competenza dell’inchiesta.
Sul registro degli indagati era allora finito anche il nome di Giuseppe Iona, insieme a quello di altre sette persone. L’accusa, per l’imprenditore calabrese, era stata di concorso nell’occultamento del cadavere. Ma dal processo che aveva affrontato era uscito assolto.
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