David Lodge: «La vecchiaia è mestaEssere creativi è un buon antidoto»

di
Francesco Mannoni
PORDENONE.
PORDENONE.
Famoso per libri in cui i giochi linguistici sono un tratto essenziale, lo scrittore inglese David Lodge, anche nel nuovo romanzo
Il professore è sordo
(Bompiani, 446 pagine – 19,50 euro), non rinuncia all’aspetto delle bizzarrie, pur tra riflessioni che coinvolgono menomazioni fisiche come la sordità e altri acciacchi del tempo. Abbiamo intervistato lo scrittore prima dell’incontro di ieri a
Pordenonelegge
con il pubblico al teatro Verdi.
– Professore, quanti elementi autobiografici ci sono nel libro?
«Ci sono due filoni principali che hanno un’origine autobiografica. Una è che il protagonista è sordo e io stesso ho un difetto auditivo. Il romanzo nasce dal potenziale comico di certe situazioni e poi è diventato molto più di quanto mi aspettassi. Ci sono parecchi elementi divertenti che sottolineano l’assurdità delle situazioni e delle umiliazioni che possono nascere dalla carenza uditiva. L’altro filone autobiografico si ritrova nel padre del narratore, ispirato molto da vicino alla figura di mio padre scomparso a 93 anni. Anche lui aveva perso l’udito, cosa abbastanza frequente a una certa età e come molti altri anziani rifiutava l’apparecchio acustico. Questo rendeva la comunicazione molto difficile. E poi volevo anche scrivere e parlare degli ultimi anni della sua vita con tutti gli aspetti buffi e tristi da commedia che ci sono. Per tutto il libro c’è un gioco di parole tra sordo e morte, termini che suonano molto vicini in inglese: il concetto che la sordità diventa una sorta d’introduzione alla morte, un segnale della nostra mortalità».
– La gente del nostro tempo ha molta paura di invecchiare. Perché secondo lei?
«Penso che questo timore dipenda in parte dal declino delle religioni, soprattutto nell’Europa occidentale. La religione offre una consolazione rispetto alla mortalità e promette una sopravvivenza. Per chi invece ha una visione materialista o dubita di questa promessa della religione, è tipico tentare di resistere all’invecchiamento. E così vediamo persone che fingono d’essere giovani anche se stanno invecchiando. Un buon esempio di ciò s’è visto con il mio editore americano che, quando si è trattato di fare i commenti sulla quarta di copertina, descriveva il protagonista come un uomo di mezza età. Un eufemismo per non dire vecchio. Non potevano accettare di pubblicare un libro su una persona vecchia».
– E lei che cosa pensa della vecchiaia?
«Penso che necessariamente debba essere un argomento correlato a una sorta di malinconia. Io mi sono reso conto di entrare nella vecchiaia soltanto dopo il settantesimo compleanno, e anche se so che non dimostro l’età che veramente ho, la sordità è il sintomo più evidente della mia vecchiaia, quello che più influisce sulla mia vita e mi rende consapevole della mia mortalità. Le persone che riescono a rimanere gioiose, attive e creative fino all’ultimo, mi affascinano, e pur se io difficilmente diventerò gioioso, spero quanto meno di conservare il più possibile le mie facoltà mentali, perché la paura di perderle è il mio più grande timore».
– Il professor Desmond, il protagonista del suo romanzo, docente universitario di linguistica in pensione, mal sopporta l’ozio e la vecchiaia, e rimpiange la scuola. Ma è difficile la vita da pensionato?
«Penso possa essere effettivamente difficile per molti accademici e altri professionisti la cui vita è sempre stata organizzata sulla base del loro lavoro e dei loro doveri, e che con la pensione si ritrovano come emarginati. Non è la mia esperienza personale, perché io mi sono ritirato presto dalla vita accademica per dedicarmi alla scrittura a tempo pieno, e da allora sono stato sempre molto impegnato. Questa parte del libro è basata sull’osservazione di altre persone».
– Lei è uno scrittore che in vari suoi libri ha scherzato sul mondo accademico. Perché ha preso i suoi colleghi come spunto per la satira?
«Credo che l’ironia sia una caratteristica molto importante della letteratura inglese e che la vita accademica favorisca un trattamento ironico: infatti, la maggior dei romanzi che trattano della vita accademica sono commedie satiriche. Questo, secondo me, è dovuto al fatto che gli accademici sono ossessivi, pensano che la loro specialità sia l’unica cosa importante al mondo e quindi viene voglia di infrangere la loro illusione proprio con l’ironia. In più in Inghilterra il mondo accademico è sempre stato propenso a ospitare una gran dose d’eccentrità più ancora che in altre professioni. Quando sono entrato in questo ambiente da professore, m’è sembrato che molti dei miei colleghi fossero folli. C’è una sorta di autismo in loro come se si rifiutassero di entrare in contatto con i sentimenti e con le emozioni normali delle persone. E questo favorisce l’ironia».
– Perché non si ferma un po’ in Italia? Di questi tempi troverebbe molto materiale che oscilla tra il farsesco e l’immorale...
«L’Italia piace molto a me e a mia moglie, ma quanto si legge dell’Italia non sempre ci entusiasma. Conosco per sentito dire il presidente Berlusconi, e ritengo sia il classico esempio di un uomo che nega la vecchiaia. Sarebbe un bellissimo caso da studiare».
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