Così nacque la Provincia di Pordenone: «Una battaglia che animò gente e istituzioni»

La figlia Alessandra racconta il senatore Gustavo Montini a cent’anni dalla nascita. Lo spirito di servizio, la pesca, il tifo per i neroverdi, le “competizioni” con Udine

PORDENONE. Cent’anni fa nasceva Gustavo Montini, padre politico dell’ex Provincia di Pordenone, sindaco della città per un decennio, senatore e sottosegretario della difesa.

Giunse a Pordenone a 11 anni a seguito della famiglia: suo padre Vincenzo, direttore della Banca Cattolica, era stato trasferito da San Donà di Piave. Dopo aver studiato al Don Bosco e allo Stellini di Udine, si laureò in giurisprudenza all’Università di Padova. Nel primissimo dopoguerra, a Roma, divenne segretario particolare del ministro dell’alimentazione Piero Mentasti.

Il padre Vincenzo, che durante la guerra aveva aderito al Comitato di liberazione, fu assessore nella prima giunta del dopoguerra. Vissuto in un clima politicamente e socialmente impegnato (il nonno fu anche membro della San Vincenzo de’ Paoli), si iscrisse alla Democrazia cristiana e divenne assessore della giunta del sindaco Garlato. Quando quest’ultimo si candidò al parlamento, gli successe alla carica di sindaco Gustavo Montini.
Pordenone, cittadina di 20 mila abitanti, era in fase di grande espansione e determinata a contare in ambito regionale. «Per raggiungere questo obiettivo – racconta la figlia Alessandra, cui abbiamo chiesto di ricordare il padre, uomo e politico – comprese che ci doveva essere una grande e unanime collaborazione di tutti e concepì il circondario, un anomalo soggetto giuridico che raccoglieva tutti i sindaci della Destra tagliamento perché portassero a Roma l’aspirazione di un territorio che riteneva avere tutti i requisiti per diventare provincia. Venne a crearsi una grande alleanza tra le istituzioni, i partiti, la stampa (come non ricordare, ad esempio, Paolo Gaspardo), il mondo industriale e la Chiesa stessa che, pur con molta discrezione, diede il suo appoggio al progetto».

La Destra Tagliamento come si mosse?
«Iniziò una battaglia politica che fu di tutti, in un clima di grande entusiasmo».

La Chiesa?
«Fu forte il sostegno morale della Chiesa e del settimanale diocesano Il Popolo, allora diretto da monsignor Giacinto, e soprattutto il sostegno del vescovo De Zanche».

Quale fu il ruolo di Lino Zanussi in questa vicenda?
«Lino Zanussi e mio padre erano amici e coetanei. Zanussi che era socio del Messaggero Veneto non esitò a mettere in campo le sue personali conoscenze per la riuscita dell’impresa».

E Udine?
«Era contraria a questo progetto. Ad ogni modo, mio padre mantenne sempre buoni legami personali con il sindaco Candolini. Con Trieste vi fu un rapporto di grande solidarietà e compartecipazione».

Come riuscì a far diventare la Provincia di Pordenone questione nazionale?
«Prima di lui ci avevano provato in molti, ma diversi progetti di legge caddero con la fine della legislatura. Come in tutte le vicende umane, anche i rapporti personali contano moltissimo. Il fratello di mio padre, Mario, anche lui avvocato e sindaco di Badia Polesine, era molto amico del ministro Toni Bisaglia, e gli presentò mio padre. Bisaglia prese a cuore questa vicenda tanto che riuscì ad ottenere il via libera in commissione deliberante l’ultimo giorno prima dello scioglimento delle camere, il 22 febbraio 1968: eravamo Provincia».

Pordenone come reagì?
«Fu una grande festa, suonarono le campane a distesa e la gente s’incontrò sotto il municipio».

E nella vostra famiglia?
«Entusiasmo. Mio padre chiamò da Roma: ce l’abbiamo fatta!, disse. Nelle passioni politiche e nelle difficoltà fummo sempre coinvolti. Della sua esperienza di sindaco ricordo l’impegno costante, suo e dei suoi assessori, e l’amicizia e solidarietà che si era instaurata con Mario Fioret, che sarebbe diventato sottosegretario di Stato agli esteri. Una giunta storica di cui conservo le foto, di quell’“eroico” periodo: mio padre con Giacomo Ros, Omero Raengo, Ennio Furlanetto, Luigi Bisol, Danilo Pavan e lo stesso Fioret».

Era orgoglioso della sua città?
«Era fiero e competitivo. Una sera, a me che lo accompagnavo, disse: “Pensa, ora possiamo leggere i giornali per strada, anche di notte, perché ci sono lampioni dappertutto”. Un’altra volta, sfogliando l’elenco telefonico, disse: “Abbiamo più pagine di Gorizia!”. Nulla era scontato: si arrabbiava quando in autostrada non trovava i cartelli che indicavano Pordenone. Era già malato quando, andando in auto verso la Carnia, disse: “Quante strade sono riusciti a fare loro…”».

Qual era al sua visione di Provincia?
«Credeva in un territorio friulano legato al Veneto. Ed era già allora consapevole quando diceva: “Questa provincia avrà un futuro se avremo una classe dirigente in grado di consolidarla».

Oggi la Provincia non c’è più.
«Dalle sue parole emergeva già allora il rischio di non poterla conservare. L’abbiamo avuta per ultimi e per primi e unici l’abbiamo persa. Ho assistito con amarezza a tutto questo e sono contenta che mio padre non ci fosse più quando è accaduto. Il senso d’identità che ci aveva caratterizzati è andato affievolendosi».

Perché non intervenne?
«Non spettava a me. Ritenevo che un intervento personale avrebbe potuto svilire il problema».

Torniamo a suo padre: senatore dal 1968 al 1976, sottosegretario alla difesa nel 1972-1973 nel Governo Andreotti.
«Si dimise da sindaco per partecipare alle elezioni politiche e contemporaneamente lasciò tutte le cariche tra cui la Banca Cattolica, i Cantiere Riuniti, l’Aeroporto di Ronchi: era il suo stile».

Il Montini “privato” com’era?
«Un uomo molto riservato, austero, discreto. Legatissimo alla famiglia».

Le sue passioni?
«La politica. La creazione della Provincia fu il grande evento che segnò la sua vita. E poi era un grande pescatore (l’incubo di mia madre che si ritrovava a dover pulire pesce continuamente) e il calcio. Ogni domenica andava allo stadio a vedere il Pordenone e quando era in trasferta alle 16.30 telefonava a Bruno Redivo del Caffè Municipio che dava i risultati senza neanche chiedere chi c’era dall’altro capo. E la lettura: l’ho sempre visto con un libro in mano».

È vero che Bisaglia gli offri un collegio in Veneto?
«Successe quando il partito non volle ricandidarlo: si ritirò. Bisaglia gli disse: “Non ti voglio perdere” e gli propose un collegio sicuro altrove. Ma non ci fu verso: papà non accettò e tornò alla sua professione di avvocato».

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