Copie di Botero e Dalì vendute per originali, assolto in Appello

L’uomo, un friulano di 69 anni, era stato accusato dal socio. Il gup lo aveva condannato a 2 anni e 6 mesi per estorsione

UDINE. Di lui si era detto che aveva spacciato per autentiche un lungo elenco di opere d’arte risultate invece contraffatte e che aveva cercato d’imbrogliare il compagno d’affari, trattenendo per sè l’assegno e i due dipinti che questi gli aveva precedentemente consegnato a titolo di cauzione.

Tutte bugie. Accuse contro le quali Beppino Mion, 69 anni, di Gonars, ha dovuto difendersi in due successivi processi di primo grado e poi anche in quello promosso davanti alla Corte d’appello, prima di ottenere il pieno riconoscimento della propria innocenza. In ballo, dipinti dalle firme altisonanti: da Fontana a Mirò e da Botero a Dalì.

A mettere nei guai Mion, da tempo inserito nei circuiti del mercato dell’arte, era stato Davide Rasolo, 39 anni, di Gemona, a sua volta noto agli ambienti e impegnato nella compravendita di quadri. Tra il 2003 e il 2004, i due avevano avuto modo di lavorare insieme alla commercializzazione di una decina di opere. Rasolo, in particolare, si era occupato del reperimento degli acquirenti dei dipinti che Mion gli aveva ceduto.

Le opere - nel “pacchetto”, due dipinti attribuiti a Lucio Fontana, uno a Giorgio De Chirico, due a Fernando Botero e due a Joan Mirò, oltre a due litografie a firma di Mirò e Dalì - non erano state pagate subito, ma prese in consegna in cambio di una cauzione rappresentata da altri due quadri (questi di proprietà del Rasolo) e da un assegno bancario del valore di 5 mila euro. In tutti i casi, però, si trattava non certo degli originali, bensì di “copie d’autore”.

Il palco era venuto meno quando uno degli acquirenti, un imprenditore e collezionista udinese, aveva scoperto l’inganno e denunciato Rasolo. Era stato a questo punto che il “mercante” d’arte, ritrovatosi indagato unico nell’inchiesta, aveva tirato in ballo Mion. Per discolparsi, aveva accusato l’ex socio non soltanto di non avergli detto che i quadri non erano autentici, ma anche di non avergli restituito i due dipinti e l’assegno dati in garanzia, subito dopo il sequestro delle opere eseguito dalla Guardia di Finanza, minacciandolo anzi di mettere all’incasso l’assegno e di cagionargli in tal modo il protesto del titolo a suo carico, se non gli avesse ceduto ulteriori due dipinti. Da qui, l’iscrizione di Mion sul registro degli indagati e la successiva richiesta di rinvio a giudizio per concorso in detenzione di opere non autentiche, appropriazione indebita ed estorsione.

La Corte d’appello di Trieste presieduta dal giudice Francesca Morelli lo ha assolto da ogni contestazione con la formula «perchè il fatto non sussiste».

Un successo che il suo difensore, avvocato Raffaele Conte, ha ottenuto dopo un doppio “passaggio” davanti al gup del tribunale di Udine - la sentenza era stata annullata in Appello per un vizio di forma - e l’ulteriore processo di secondo grado. A “cassare” le prime due ipotesi di reato erano stati già i giudizi abbreviati. Per l’estorsione, invece, a Mion erano stati inflitti dapprima 2 anni e 2 mesi e, poi, 2 anni e 6 mesi. Condividendo in toto le argomentazioni portate dal difensore, la Corte triestina ha cancellato anche l’unica contestazione rimasta in piedi.

A giocare a favore dell’imputato è stata proprio l’inattendibilità del suo accusatore. «Mion ha detenuto e ceduto le opere consegnate a Rasolo - si legge nella sentenza -, rappresentandone senza inganno la reale natura di copie d’autore, come si desume anche dal modesto valore della cauzione chiesta dal primo al secondo».

La prova è stata desunta sia dalla dichiarazione sottoscritta da Rasolo a garanzia dell’atto di affidamento - e che quest’ultimo aveva dichiarato essere stata redatta da Mion su fogli bianchi prefirmati -, sia dai cartellini con la dicitura “copia d’autore” trovati dalla Finanza sul retro dei Mirò e dei De Chirico durante la perquisizione (cartellini che Rasolo aveva tolto dai quadri in vendita). La Corte ha inoltre ritenuto legittimo il rifiuto del Mion di restituire l’assegno, ricordando come lo stesso lo abbia poi spontaneamente consegnato alle Fiamme Gialle. «Dopo essersi visto denunciare - concludono i giudici -, Rasolo ha cominciato a nutrire verso Mion risentimento e il pervicace intento di perseguire comunque un profitto economico a suo danno».

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