Con Lina Wertmüller nel salotto del ’900

CIVIDALE. Lina ama guidare a fari spenti, metaforicamente s'intende. Non è certo una “figlia” di Battisti. L'avrà ascoltato, eccome. Un regista assorbe da tutti e da tutto. Vogliamo intendere una che rifiuta le regole scritte, viaggia per conto suo, mescola sacro e profano. E anche qui andiamo avanti per metafore. Insomma di Wertmüller ce n'è una sola, ecco. I film? Be’, anche il non-cinefilo almeno uno lo avrà visto in vita. Sono irruenti, hanno innovato, hanno osato, abili mescolanze sociali.
A ottantasei, questa è l'età della signora, rifiuta la quiescenza piena, il girovagare per la città con la calma del mondo o lo stare a casa a ingurgitare pellicole. In effetti, questa è la sua passione. Ne vedrebbe anche quattro al giorno, se potesse.
Il teatro, ecco. Si può fare anche a novanta. Volendo. Ma non sempre, però. Ernesto Calindri, Gianrico Tedeschi, due fra i tanti longevi delle tavole di legno scheggiate del palcoscenico. La lady si accomoda sul divano, è di rosso vestita e inforca uno dei suoi cinquemila paia di occhialini bianchi, simbolo di fedeltà e di civetteria. Ha sempre scritto, la Lina, migliaia a migliaia di parole. Mai si è affidata a uno sceneggiatore. I suoi prodotti li ha ben che confezionati da sola.
Uno sull'altro in bell'ordine. Anche Un’allegria fin de siècle, of course. Non sarebbe più lei. Cede alla tentazione del Mittelfest, ebbene sì. Ci disse che i festival si distinguono dai soliti cartelloni degli Stabili. Danno un qualcosa in più, osano, se non altro. «Ci vengo per questo». Eccola. Inchina la testa all'applauso spontaneo del Ristori, molla un sorriso e si tuffa nel racconto.
Arriviamo al solo. Un'allegra fin de siècle è un succoso e concentrato bignami di storia, del secolo che fu, tecnologicamente altisonante, guerrafondaio non poco, dittatoriale, culturalmente generoso... Chi l'ha attraversato in qualche modo, chi l'ha letto. È stato digerito, ormai.
L'assemblaggio è una simil rivista, un pianoforte, una voce, canzonette intonate ai primi Novecento (a sussurrare le melodie con garbo è Nicoletta Della Corte, mentre Andrea Bianchi pigia delicatamente sui tasti) e il passato pronto a venir fuori, senza irruenza, tutt'altro. Un sistema salottiero, dove chi sta al centro dell'attenzione istruisce gli ospiti con il piglio tipico della dama colta e un po' disincantata. La conosciamo, no? Non c'è dramma, anche se fu vero dramma.
Lo sparo a Sarajevo e vien fuori il finimondo. Ottocentomila poveri soldati italiani salutano e se ne vanno. In guerra e all'altro mondo. Si comincia proprio dal principio, eh, nessuno sconto. Le invenzioni che ribaltarono le esistenze di un popolino ancora ottocentesco, la risalita dalla battaglia, un benessere veloce, si viaggia nei Venti, gli anni ruggenti, e subito c’è avvisaglia di nuove e peggiori disgrazie. I Savoia, il Re Soldato, piccolino, il figlio Umberto, alto con portamento elegante, e poi Benito Mussolini, il socialista figlio di fabbro con grandi ambizioni, il feroce austriaco con baffetti, un’altra guerra alle viste... Conosciamo, conosciamo. E si sale . con brio su su verso l'oggi.
La Wertmüller fa un po' la prof, di quelle simpatiche che ti fanno passare una distrazione. Si ripassa il secolo breve, dai, terribile e giocoso, fino alle Due Torri, fra un motivetto, una nota a piede di pagina e una suonatina. In un'atmosfera leggermente frizzante, come una volta.
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