"Con le nostre inchieste difendiamo la democrazia"

UDINE. Dai segreti delle cosche mafiose, capaci di allungare i propri tentacoli sino alle Regioni del nord, agli intrecci tra politica e criminalità organizzata di Mafia Capitale, passando per gli affari – ben poco evangelici – di Santa Romana Chiesa.
Il panel tra i giornalisti de L’Espresso Lirio Abbate ed Emiliano Fittipaldi, condotto dalla collega Luana de Francisco, è stato tutto questo e ha portato gli oltre 500 spettatori presenti al Giovanni da Udine dentro le grandi inchieste italiane ponendo l’accento sulle preoccupazioni che nei prossimi anni non si possano più realizzare.
Quelle inchieste, però, capaci di scoperchiare il vaso di Pandora degli scandali. Anche a costo di vivere perennemente sotto scorta, proprio come nel caso di Abbate – “il più grande giornalista antimafia d’Italia” lo ha definito il direttore Tommaso Cerno - minacciato più volte di morte, o di essere sotto processo al di là delle Sacre Mure, vedi Fittipaldi – “il più bravo giornalista d’inchiesta del Paese” è stata la chiosa sempre a firma di Cerno - dopo aver puntano il dito contro gli affari e gli investimenti miliardari del Vaticano in tutto il mondo.
Un percorso, però, che non è stato soltanto rivolto al passato, ma anche al prossimo futuro con una consapevolezza: il buon giornalismo difende la democrazia. «Veniamo pagati per rompere le scatole a chi ci amministra – ha raccontato Abbate –, visto che chi ci governa deve essere una persona trasparente.
Fino a questo momento, almeno, perché fra qualche mese sarà tutto più difficile con l’inasprimento delle pene per diffamazione allo studio del Parlamento: se un giudice la riterrà tale nei confronti di un politico, infatti, questa potrà aumentare sino a un terzo.
È un problema, perché se realizzare un’inchiesta nei confronti di qualcuno senza cadere nella diffamazione rappresenta una delle imprese più belle al mondo, la preoccupazione per la disparità di trattamento che si potrebbe realizzare è molto forte»”.
D’altronde, basta dare un’occhiata all’ultimo report sulla libertà di stampa per capire i rischi. Una delle motivazioni del declassamento italiano in questa particolare classifica, infatti, è stato proprio il comportamento dopo l’esplosione dell’inchiesta Vatileaks e delle decine di anatemi caduti sulla testa di Fittipaldi.
«Penso che ci siano luoghi dove fare giornalismo è più difficile rispetto a questo Paese – ha raccontato il giornalista –, ma è vero che noi abbiamo sempre più difficoltà a raccontare la verità. Da un punto di vista della criminalità, e Abbate ne è un esempio, ci sono decine di professionisti che vivono sotto scorta e sono minacciati, ma c’è poi un secondo aspetto: le liti temerarie.
Cioè quando qualcuno, dopo un’inchiesta, cita il giornalista e il rispettivo quotidiano per milioni di euro. E di fronte a certe cifre ogni editore, anche il più grosso, si spaventa, con il corollario del teorema che ci spiega come, la prossima volta che quella persona finirà nel mirino di un organo di stampa, si discuterà se e come scrivere di lui».
Poi ci sono gli insulti, quelli che arrivano anche dalla società comune. «Non sempre quello che raccontiamo dimostrando con documenti e fatti alla mano – ha concluso Abbate –, ci permette di portare tutti i lettori dalla nostra parte perché, ricordatevi, dietro a quello che denunciamo c’è sempre qualcuno che ci mangia».
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