Il suo cognome le ricorda guerra e violenza, odissea per poterlo cambiare

Il caso a Pordenone. La Prefettura aveva negato il cambio di cognome a una donna originaria dei Balcani, ma il Tar ha accolto il ricorso. Ora può ripresentare la richiesta

Valentina Voi
Il suo cognome le ricorda guerra e violenza, odissea per poterlo cambiare
Il suo cognome le ricorda guerra e violenza, odissea per poterlo cambiare

Dimenticare. È l’unica cosa che vuole quella bambina che ha vissuto gli orrori della guerra e della violenza. Ad impedirglielo, legandola a un cognome che ora che è adulta non vuole più, è un provvedimento di rigetto approdato in tribunale: la Prefettura ha negato il cambio di cognome, il Tar le ha dato ragione e il provvedimento ora può essere ripresentato e – forse – accolto. «Spero che stavolta possa essere ascoltata» spiega il suo avvocato, Carla Panizzi, che ha seguito il caso di una donna originaria dei Balcani.

La vicenda risale a quest’estate ma affonda le sue radici nell’infanzia della donna, che ha presentato alla Prefettura di Pordenone una richiesta di cambio cognome: da quello del padre, a suo dire già morto da anni, a quello del marito. Quel cognome, racconta nella sua richiesta manoscritta, «mi crea parecchi disagi sia personali che emotivi» avendo «un brutto passato familiare».

Non basta, secondo la Prefettura, che la scorsa estate ha rigettato la richiesta adducendo motivi di sicurezza e aggiungendo la mancanza di prove rispetto a un passato di violenza. «Ho presentato una memoria difensiva – spiega l’avvocato Panizzi – ma il punto è un altro: il fatto che non sia provabile, non vuol dire che non sia vero e che soprattutto non sia vera la sofferenza della donna, che va sempre trattata con umanità».

Il caso è quindi approdato al Tar, dove è stato presentato un ricorso contro il rigetto della richiesta. Per quasi due mesi i giudici hanno valutato questa delicata situazione, arrivando infine a ricordare che il nome, oltre ad essere segno identificativo dell’individuo nei rapporti con gli altri, «costituisce espressione dell’identità personale».

Vanno quindi bilanciate le esigenze della sfera pubblica e di quella privata: nel caso della donna, la «divergenza tra la sua identità personale e il cognome» è «palese», al di là delle prove. «Non vi sono dubbi – continuano i giudici – che il cognome possa risultare fonte di sofferenze, perché rinnova la memoria di un’infanzia problematica vissuta in un ambiente difficile e traumatico». Un caso che, secondo il Tar, merita un maggiore approfondimento. 

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