Candoni, quando il cuore sa spingere l’impresa

ARTA TERME. Sta giocando con alcuni amici in un prato, rovistando tra i sassi. Trova un frammento rossastro, un oggetto strano. Se lo rigira tra le mani, ma deflagra: è un micidiale “cadeau” della macelleria della prima mattanza mondiale. Per lui è l’ultima visione del mondo: l’ampia valle del But laddove s’incontra col Chiarsò e un cielo azzurro da piangere. Il buio totale sopravviene quasi subito: suo fratello perde un occhio; lui rimane cieco. Ha soltanto 8 anni. Suo padre Umberto, fotografo, di fede profondamente anarchica, antimilitarista radicale, più volte presenta il figlio in pubblico, quasi esibendolo, come una delle tante vittime della follia della Grande guerra. Ma il figlio non ci sta, non si sente diverso, mutilato. Eppoi, da buon carnico disprezza la pietà, l’autocommiserazione. Negli anni Trenta la sua famiglia è costretta a fuggire in Francia, braccata dai sicari fascisti. Ma nel frattempo, Prometeo Apollo Candoni, nato ad Amaro nel 1911, s’è fatto grande, s’è fatto una ragione della sua mutilazione. È diventato musicista. È capace di sciare. Fa pure sci nautico. E quando disserta, come capiterà di farlo per decenni da capitano d’industria, durante le discussioni ripete ai suoi interlocutori: “voyons, voyons” (vediamo, vediamo). Soltanto alla fine dell’incontro si accorgono che lui è cieco. Un cieco con le idee chiare, con la voglia di rivincita, con la caparbietà di chi non si arrende, con la “follia” di chi sa che la vita va vissuta anche come un sogno. E lui il suo sogno lo realizza, regalandosi una rivalsa alla frustrazione subita colmando il vuoto iniziale della domanda più difficile: cosa fare, cosa inventarsi all’indomani della seconda mattanza mondiale?
Candoni ha soltanto 36 anni, 140 franchi in tasca, un piccolo garage con il pavimento in terra, un amico, Constant, che condivide il suo sogno. Candoni è più forte delle trappole del destino. Candoni comincia a scrivere il romanzo della sua vita, ripercorsa ieri mattina, ad Arta Terme, in una giornata che gli ha tributato un riconoscimento che di certo non basta a raffigurare la grandezza di un uomo la cui vita è un vero e proprio manuale di etica, antropologia, ma soprattutto economia applicata.
Già, ha 140 franchi in tasca: 100 li impiega per un bilanciere a mano; 40 li versa per un acconto per un piccolo stampo da trancia per morsetti da quattro a sei millimetri. Sa che l’auto è un “oggetto” del futuro. Le dita di quel cieco di guerra seguono la sagoma della macchina per trovare la forma esatta. Lui e Constant lavorano a turno, giorno e notte. Si svegliano soltanto quando il fragore del macchinario tace. Giorno dopo giorno l’attività cresce. Sfida le banche, fa debiti, investe, acquista nuovi macchinari, comincia ad assumere. Crea la Seima. E come scriveva proprio il Messaggero Veneto di tanti anni fa, «il destino ha voluto affidare proprio a un cieco la fabbricazione di apparecchi per quelli che vedono». In vent’anni Candoni ha creato la più grande fabbrica di accessori d’auto d’Oltralpe. E nel 1969, nello studio del notaio Lepre, nasce la Seima italiana spa, con capitale di 10 milioni di lire sottoscritto per due terzi dallo stesso Candoni e il rimanente da Friulia. Vengono selezionati 15 operai che saranno la struttura portante dell’azienda tolmezzina. Il 7 maggio 1970 – come ha raccontato ieri il manager Giorgio Bassano – viene posata la prima pietra. Un anno dopo comincia la produzione. Oggi la Seima italiana (Automotive Lighting) è al centro dell’Europa e fornisce Fiat, Alfa, Audi, BmW, Mercedes, Opesl, Volvo, Sab, Ferrai, Maserati. Nel 2000 la Seima di Tolmezzo toccò i 720 dipendenti, più 450 nell’indotto.
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