«“Burba”, rispetta i nonni»

PORDENONE. Era una ferrata alla fine degli anni ’60, come tante di quelle che gli alpini facevano sul Cadore per addestrarsi. Erano quattro rocciatori guidati da un capitano, che doveva dall’alto della cima rendersi conto della manovra di un addestramento.
«All’improvviso si è “incrodato” – dice Isidoro Perin, classe 1947 – si è fatto prendere dal panico e non è stato più grado di salire o scendere la via. I quattro “bocia” hanno preso il “vecio” e lo hanno portato in salvo giù a valle. Ma questo, i protagonisti dell’episodio, ce lo hanno raccontato in privato, dopo il congedo, come si racconta una storia ma con discrezione, senza alcuna vanteria e con riguardo nei confronti dell’ufficiale. Anche se in montagna, nelle difficoltà, non c’è anzianità che tenga, il rispetto verso il “Vecio” deve sempre e comunque essere dovuto dal “Bocia”».
Parola dell’alpino Perin, che parla del rispetto nei confronti dell’anziano come di un valore importante della collettività, fondante nella famiglia patriarcale italiana fino al secondo dopoguerra.
«Il riguardo per l’anziano, che possiede sapienza e saggezza grazie al suo vissuto, era un valore trasmesso dalla società all’ambiente delle divise. Si trova difficilmente in altre situazioni di vita – puntualizza Isidoro, che da “vecio” fa ricerche sul passato ed è diventato uno scrittore -. Oggi, il rispetto è scomparso, basta guardare i rapporti tra insegnanti e alunni, e insegnanti e genitori. Un valore si è rotto e non funziona più nulla».
“Veci” e “Bocia”, termine dialettale per indicare tra gli alpini le “burbe”, coloro che hanno appena iniziato il servizio militare, e i “nonni” quelli che, arrivati alla fine della naja, imponevano loro il rispetto tramite scherzi ma anche vessazioni.
«Il “nonnismo”, quella volta, aveva un suo senso – rimarca Perin -. Si trattava di rendere responsabili i ragazzi che non erano mai stati fuori dal proprio paese. Certo, è degenerato come fenomeno, ma in quelle caserme dove non si faceva addestramento. Perché, laddove c’era attività militare, alla sera si era troppo stufi per pensare di vessare chi stava lavorando con te».
Gigi Ceva, dell’allora 2° reggimento artiglieria da montagna, parla del nonnismo come una conseguenza naturale del rapporto che si instaura tra gli ultimi arrivati e quelli con più esperienza. «Quella volta, a nessun genitore sarebbe passata per la testa l’idea di chiedere l’attivazione del numero verde per segnalare le “atrocità” commesse ai danni dell’indifeso pargolo, come è avvenuto negli ultimi tempi del servizio di leva».
Il nonnismo esisteva nelle università nei confronti delle matricole, nei posti di lavoro per i neo assunti, nei campeggi con l’oratorio. «Nessuna idea suicida o piagnucolamenti da mamma. Tutto veniva risolto con un vaffa... e ci si preparava al prossimo scherzo che sarebbe arrivato».
Ceva addirittura fa una piccola lista degli scherzi più o meno pesanti che venivano fatti ai “ bocia”. A cominciare dal classico “gavettone”, che poteva essere più cattivo se fatto con la sciacquatura dei piatti. Più serafica la richiesta di rimboccare la coperta al “vecio” cantando “Dormi nonnino che il congedo è vicino”. Si cantava “cucù”, invece, quando scoccavano le ore e i minuti correnti, stando sulla plancia dove si riponevano zaino, elmetto e cappello.
Tanti ricordano ancora la “Comunione”, quando il “bocia” doveva percorrere in ginocchio un percorso tra le candele dove alla fine trovava un “vecio” che gli somministrava una fetta di patata. Peccato che fosse intrisa dell’orina del mulo. Superarlo, meritava rispetto: era l’affrancamento per non subire più scherzi, diventare dunque un “vecio”.
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