Bartolomeo d’Alviano, il Pordenone e l’anniversario dimenticato

All’inizio del ’500 un condottiero umbro contese la città agli Asburgo. Quei segreti sono custoditi negli affreschi
Di Sebastiano Comis

di SEBASTIANO COMIS

Bartolomeo d’Alviano, il condottiero umbro - era nato a Todi - al servizio di Venezia, e da questa premiato nel 1508, dopo la vittoria sugli imperiali a Tai di Cadore, con la signoria di Pordenone, nel 1509 cadde prigioniero del re di Francia.

Al che i pordenonesi, avendo sperimentato la durezza del nuovo signore, tornarono velocemente sotto la protezione di Massimiliano d’Asburgo. Quattro anni dopo i francesi si allearono con la Serenissima contro Massimiliano, e liberarono l'Alviano, che riprese il suo incarico di difensore dei possedimenti veneziani, tutt’altro che consolidati.

Difatti, nel marzo del 1514, dovette muovere con i suoi mercenari per rompere l'assedio degli imperiali al forte di Osoppo.

Lungo la strada pensò bene di curare anche i propri interessi, riprendendo possesso del suo feudo pordenonese. E così il 29 marzo del 1514 l’Alviano “vense sotto le mura de Pordenone”, come racconta il nobile Sebastiano Mantica “et le dettono battaia per zorni doi”.

Dopo di che la città, che allora consisteva nell'attuale centro storico compreso tra la Bossina e la porta sul Noncello, venne espugnata e i suoi coraggiosi difensori “forino amazadi tutti... et sachezarono perfino le Giese e amazarono gente in Giesia e violarono femine assai”.

Sbrigata la faccenda, l’Alviano proseguì per Osoppo dove sconfisse le truppe asburgiche e catturò il dalmata Cristoforo Frangipane, che le comandava.

L’anno seguente l'Alviano morì, di morte naturale, sotto le mura di Brescia.

Dunque tre anni fa ricorreva – ma non è stato ricordato – il cinquecentesimo anniversario dei fatti di Pordenone, pieni di violenza e di sangue. Fatti dei quali troviamo un’eco in molte opere del nostro massimo pittore – pensiamo alla conversione di Saulo del duomo di Spilimbergo o all'uccisione di san Pietro martire di Chatsworth – che probabilmente poté assistervi dalle finestre del suo studiolo, vicinissimo alla porta Furlana.

Proprio i dipinti del Pordenone fornirebbero la sceneggiatura e i costumi di una possibile rievocazione annuale, una nuova finta tradizione: non il solito palio, ma l'assedio della città, l'ingresso del condottiero umbro e della soldataglia in armature e brache rinascimentali, i cavalli scalpitanti, le violenze.

Dopo la morte dell’Alviano, il compito di reggere le sorti della famiglia passò alla vedova, Pantasilea Baglioni, che da donna pratica quale era dovette notare se non le doti guerresche, almeno la laboriosità dei friulani.

Quindi non si limitò a incaricare il Pordenone di affrescare la parrocchiale e il palazzo di Alviano, ma portò, o deportò in Umbria anche un certo numero di pordenonesi, probabilmente muratori o artigiani.

Non l’ho letto in qualche documento d'archivio, ma sulle Pagine Bianche, l’elenco telefonico on line, dove compaiono, tra Todi e Terni, alcune famiglie che portano l'inequivocabile cognome di Pordenoni o Pordenone.

Ho provato a telefonare a uno di questi numeri e ho parlato con una anziana signora, che alla domanda «Da quanto la vostra famiglia risiede in Umbria?» ha risposto «Eh, da tanto...».

A questo punto, ripensand. o a massacri e deportazioni, mi sono chiesto se i “todeschi” del dialetto pordenonese siano davvero i tedeschi di Germania o piuttosto quelli di Todi.

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