Antonia Klugmann è la cuoca dell’anno

UDINE. La più brava di tutte: cuoca dell’anno secondo la Guida Espresso dei ristoranti d’Italia. Mica un premio qualsiasi.
Specie se arriva a consacrare una carriera ai fornelli che nel 2015 si era già fregiata di una stella Michelin e del titolo di “Novità dell’anno per la guida Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso, due attestati che avevano portato all’attenzione nazionale (e internazionale) il suo ristorante: l’Argine, oasi di alta (eno)gastronomia creata nel dicembre 2014 e incastonata sui dolci pendii del Collio goriziano, a Vencò, Dolegna del Collio. Il confine con la Slovenia a 150 metri.
Una (nuova) ribalta che ha tolto il fiato e regalato il sorriso ad Antonia Klugmann, 36 anni originaria di Trieste, ma friulana di adozione (vive da sei anni a San Pietro al Natisone), che a Vencò ha deciso di dare una svolta alla sua vita e alla sua professione «perchè mi ritengo una donna di confine, orgogliosa di queste terre e dei suoi prodotti».
La migliore in Italia: sorpresa?
«Stordita. Era venuto a mangiare da me il direttore Enzo Vizzari (direttore delle Guide Espresso, ndr), prenotando con il nome di un altro, poi so che sono arrivati altri esaminatori, in incognito, ma mai più mi aspettavo questo premio, che viene assegnato a una sola donna in Italia. Ecco, sono contenta perchè lo ritengo un premio per tutte le donne che lavorano in cucina. E ricordo con orgoglio che l’Italia ha il maggior numero di cuoche stellate al mondo».
Merito del risotto in bianco alla salvia?
«È il mio piatto forte, lo ammetto. Semplicissimo, ma guardo sempre chi mangia da me, è una pietanza che sa regalare emozioni. Ma non credo che il premio si basi su una sola riga del menù. Ci vuole tanta costanza, il livello della cucina deve essere sempre alto. Specie ora che sono arrivati i riconoscimenti e il cliente si aspetta sempre molto. Ed è questo il difficile».
La qualità nasce anche nell’orto?
«Assolutamente, ne abbiamo uno fuori dal ristorante. Piccolino, ma è il mio laboratorio, dove nascono le idee e i profumi, una cartina di tornasole della stagionalità dei prodotti. Fondamentale per chi cucina. Da lì nascono altri piatti per i quali mi piacerebbe essere riconosciuta: un’insalata fatta con due varietà, canasta arrostita in padella e una varietà rossa molto saporita, poi bottarga di muggine e salsa di acciughe e alici. E la zuppa di pomodoro rosso con pelati di pomodoro giallo, crostini di pane e tartufo nero dello Judrio».
Mamma e papà medici. Come avevano preso la decisione di abbandonare l’università per la cucina?
«Ero a Milano, 22 anni, terzo anno di Giurisprudenza alla Statale. Ho detto basta, volevo fare lo chef. Hanno capito, per fortuna. Sono tornata a Trieste, ho fatto la lavapiatti e la cameriera, poi i dolci, tanta gavetta. La svolta quando mi hanno chiamata per uno stage al Dolada, nel Bellunese, il mio primo ristorante stellato. Li ho capito, ho capito che era la mia strada. Nel 2006 a Pavia di Udine, Antico Foledor Conte Lovaria, sei anni in affitto: locale fondamentale, prima esperienza come chef. Poi a Venezia al Ridotto, poi al Venissa, a Burano: sempre di corsa. Ma i clienti di allora mi sono rimasti, ora vengono a Vencò».
Esiste una buona cena senza un buon vino?
«Non credo, soprattutto in questa regione. Lavoro nel Collio, vicino al Carso, abbiamo puntato tanto sui vini friulani io e il mio maitre di sala, Romano De Feo, che è anche il mio compagno. Abbiamo un tesoro qui e a volte sembra che se ne rendano conto solo gli altri: quando giro l’Italia e dico dove vivo, dove lavoro, tutti mi invidiano».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto