Addio Bonatti, leggenda dell’alpinismo

UDINE. Sono sempre i migliori che se ne vanno, dicono. Non è vero: succede a tutti, ma solo pochi fanno sentire acutamente la perdita, lasciando un vuoto che può essere colmato solo dal mito. Così è per Walter Bonatti, il cui lutto tocca il mondo dell’alpinismo e dell’arrampicata, ma forse anche chi, pur estraneo all’ambiente, ha conosciuto l’uomo leggendo. Attraverso quello straordinario Bildungroman che è Le mie montagne, o i grandi servizi di giornalismo esplorativo. Su parecchi alpinisti possono sussistere motivi di discussione. Non su di lui. Spazzate via dal tempo galantuomo le ombre del K2 e del Frêney, l’integrità del personaggio splende come un cristallo.
Proprio i cinquant’anni della tragedia del Bianco hanno offerto l’occasione di un incontro pubblico, che nessuno immaginava dovesse essere l’ultimo. Una festa gioiosa, quella di Trento: lui, con il suo solito parlare misurato, chiaro, mai piacione, coronato da una lunga, affettuosa standing ovation tributata dalla platea del Filmfestival.
Abitatore di un alpinismo ancora non tarantolato dal business, e scalatore di monti su cui “gli ultimi problemi” non era necessario inventarseli, Bonatti ha trasmesso emozioni e sensazioni precise e inconfondibili (la norma, un tempo; oggi invece i grandi récits d’ascension e de vie si assomigliano tutti, pare quasi di leggere lo stesso libro). Cresce nel clima non facile del dopoguerra: «I miti erano: Gesù Cristo come Dio, il re dell’Italia, il Duce dell’Impero. Arrivo a Piazzale Loreto, s’è girata la baracca. Vedo il Duce appeso come un maiale. Il Re è scappato, la guerra perduta. Cristo un’ipotesi. Avevo quindici anni, mi affacciavo alla vita in un mondo disfatto, senza prospettive e con gli ideali infranti», racconterà. «C’erano le montagne. Roccia. Ho cominciato con l’alpinismo. Quando si è su una montagna legati per la vita e per la morte si deve essere sinceri con se stessi. Perché i conti con gli altri puoi sempre farli tornare. Ma in montagna due più due fa quattro».
Classici gli esordi: ginnasta della “Liberi e Forti”, si impiega alla Falck ed entra nel gruppo monzese dei “Pelle e oss”. Come Cassin appartiene all’aristocrazia operaia, e come lui si avvicina alla Grigna. Diciannovenne, ripete le vie aperte dal friulano-lecchese sulla Walker e sul Badile. Poi scala la est del Grand Capucin, l’Aiguille Noire de Peuterey per cresta sud, la direttissima della cresta di Furggen al Cervino, iniziando una grande stagione di prime ascensioni. Diventato guida alpina, nel ’54 viene chiamato a far parte della spedizione Desio al K2, dove rischierà la morte e verrà calunniato, trovando giustizia solo dopo mezzo secolo. Per liberarsi dal ricordo dell’amara avventura himalayana, con una solitaria di sei giorni scala il pilastro sud-ovest del Petit Dru, forse la sua impresa più ardita e straordinaria, assieme alla via con cui nel 1965 sceglie di concludere la propria attività di punta: la prima ascensione del Cervino per diretta Nord, in invernale solitaria. In questo decennio si collocano, altre grandi imprese: il Pilier (senza i due tiri finali della chandelle, ma si sa com’è andata), il G 4, e il tentativo di solitaria alla roulette russa dell’Eiger, dove riesce a scendere malgrado la frattura alle costole causata da una pietra.
Poi i grandi reportages per Epoca, sulle tracce di Conrad, Melville, Stevenson, autori preferiti dell’adolescenza. E il buen retiro di Dubino, con Rossana Podestà, fedele compagna di vita.
In Friuli era venuto qualche anno fa per l’inaugurazione della sottosezione Cai di Valvasone. Come se all’inaugurazione di una chiesa di provincia, arrivasse in visita il Papa. O meglio un santo. In un clima di felice ed emozionata suggestione, aveva tenuto una conferenza, conclusa da un’esortazione semplice e forte: «Siate la semente di un alpinismo vissuto a misura d’uomo, nell’amore e nel rispetto piuttosto che nell’idolatria della tecnica». Ciao Walter, sit tibi terra levis.
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