Addio a Pino Roveredo, lo scrittore che raccontò la vita degli ultimi

Aveva 68 anni ed era malato da tempo. L’impegno con don Ciotti e don Vatta. Lontano dai salotti, è stato anche garante dei detenuti del Friuli-Venezia Giulia

Mary B. Tolusso

«Mi ricordo che da ragazzini, nei miei primi giri in tribunale, un’assistente sociale ipotizzò per me il ruolo futuro di persona irrecuperabile. Sono quarant’anni che, con tutti i muscoli che posso, riesco a smentirla ogni giorno, un giorno».

Sono le parole che chiudono il romanzo “Ferro batte ferro” di Pino Roveredo. Si potrebbe riassumere con questa citazione la vita dello scrittore triestino che si è spento ieri dopo lunga malattia nella struttura sanitari di Pineta del Carso dove era ricoverato da alcuni giorni.

Nato nel 1954 A Trieste ebbe un’infanzia difficile e ai gravi problemi familiari seguì la piaga dell’alcolismo e il carcere. Ha svolto innumerevoli lavori, garzone, operaio fino alla collaborazione con diverse cooperative.

Aveva esordito nel 1996 con il testo autobiografico “Capriole in salita” che lo fece conoscere al grande pubblico. Oltre a diversi romanzi e racconti ha scritto molto anche per il teatro. Pino Roveredo ha sempre posto al centro della sua opera l’uomo, osservato nelle sue debolezze, gli abbandonati, i reietti, i deboli, i vinti, tutti coloro che hanno un disperato bisogno d’amore, non quello romanticamente commercializzato, ma l’amore necessario, collettivo, solidale. Ma ha anche raccontato l’uomo nelle sue straordinarie potenzialità.

Con “Mandami a dire” (Bompiani), nel 2005, ha vinto il Premio Campiello come miglior romanzo dell’anno.

Tutta la sua opera in fondo è una sorta di autobiografia, quasi priva di fiction. D’altra parte aveva molto da raccontare, non solo su se stesso ma anche sulle possibilità che tutti hanno, la speranza del riscatto.

Ed è così che si è sempre mosso negli ambienti più “deboli”, mai attratto dai salotti letterari, quanto da chi aveva provato un’esperienza al limite, nelle carceri o negli ex manicomi, un titolo tra tutti: “Ballando con Cecilia”, un romanzo che divenne anche una pièce teatrale, nato dopo un’esperienza di volontariato all’ex Opp.

Avrebbe dovuto diventare anche un film, interpretato da Ornella Vanoni, grande amica dello scrittore. Le donne in fondo sono state le protagoniste di tanti suoi testi a iniziare da quella madre coraggio che detta il passo di “Caracreatura”, lì dove ha raccontato la tragedia della droga, della tossicodipendenza.

Nulla era teorico in Roveredo, da qui le innumerevoli collaborazioni con don Mario Vatta e don Luigi Ciotti, oltre a essere stato garante dei detenuti del Friuli-Venezia Giulia.

Nel 2021 si era candidato a consigliere comunale a Trieste, con una lista civica, Punto Franco. Energico fu il libro dedicato al padre, quel padre operaio-calzolaio sordomuto, un buon padre anche se l’alcol era una delle sue debolezze.

Ma è proprio questo il punto. Roveredo non si è mai sentito vittima delle circostanze, ha sempre creduto nella determinazione della volontà e nell’occasione di “Mio padre votava Berlinguer” ci spiega come anche i morti tornino per insegnarti qualcosa.

Ecco allora quanto la memoria sia vera e propria vita. E forse anche quanto lo sia la famiglia, lui che una vera famiglia non l’aveva mai avuta, è stato poi sposato con Luciana e guardava come fari luminosi i suoi tre figli: Alessandro, Andrea e Marco. Così come imprescindibile è stato il rapporto con la sorella Olga che l’ha seguito fino agli ultimi istanti.

Ma forse di famiglie Pino ne ha avute tante, tutti coloro con cui ha condiviso le esperienze più dure. Ed è proprio il suo ultimo libro a raccontarcelo, “I ragazzi della via Pascoli” (2019), che si potrebbe considerare un prequel di “Capriole in salita”. Scopriamo così il percorso della sua infanzia in quello che a Trieste negli anni ’50 era l’Eca, l’Ente comunale di assistenza.

All’Eca erano 300 i bambini provenienti da famiglie povere: «Tra loro c’ero anch’io – aveva dichiarato – Si andava all’Eca, che noi chiamavamo “entrata cani affamati”. Un posto rigido, ma quando sei bambino non te ne rendi conto, pensi che la vita sia fatta a quel modo. Te ne accorgi dopo, quando esci.

La maggior parte di quei 300 oggi li incontro negli istituti psichiatrici o in carcere, siamo cresciuti storti. Ci hanno tolto l’infanzia» e intanto racconta anche la Trieste di allora: «oscura e fascista», ma un merito della sua poetica è proprio quello di aver raccontato la Trieste più ombrosa, non quella mitica da cartolina.

Esiste già il sequel de “I ragazzi della via Pascoli”, scritto in questo ultimo periodo e che speriamo sia presto in libreria.

La scomparsa di Roveredo è una triste perdita per la città, come uomo e come autore, lui che non voleva farsi chiamare “scrittore” e preferiva definirsi “autista di parole”. Lui che diceva: «Sono diventato popolare raccontando il mio lato peggiore».

Di fatto è proprio il “lato peggiore” che i veri artisti raccontano, quello che conoscono soltanto i veri amici. Roveredo si fidava degli amici, prima di consegnare un romanzo lo mandava in lettura a quindici persone di fiducia, triestini e non tra cui anche Ornella Vanoni, Gigliola Bagatin o Mario Grasso.

Cadute e risalite, questa è stata tutta la sua esistenza, infine dedicata agli altri: «La battaglia per uscire, per vivere, per non morire è una costante della mia vita».

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