Storia d’amore e di libertà nel Friuli del Settecento

Settimana di incontri importanti a “Il libro delle 18.03”. Oggi, a quell’ora, nella sala Apt di Gorizia, Federica Ravizza, già vincitrice del premio Latisana per il Nord-Est, presenterà il nuovo romanzo “Notturno con figure”, storia d’amore tra una nobildonna e un contrabbandiere nel Friuli del '700. Converserà con Fabiana Dallavalle.
Angelo Floramo
La data in cui principia la narrazione è precisa: «la primavera del 1759 che ancora non prevaleva sui rigori dell’inverno appena trascorso». E fin dalle prime battute, così intrise di odori intensi, quelli di tabacco ed essenza al bergamotto, il lettore percepisce la vaga consapevolezza che lo sguardo capace di cogliere il colore dell’anima di questo “micromondo” non può essere altro che quello di una donna. Nella danza che l’ombra muove con le fiammelle fioche dei ceri, nell’incerto baluginare dei bracieri, circondata dal convulso disordine di una casa gentilizia e avita inghiottita dalla noia appare lei, bella come un’ombra appena sgualcita dal ricordo di un dolore, la Eccellentissima Signora Donna Costanza Foschi Bonsignori, marchesa di Torrealta, vedova dell’ancor fresco cadavere del marchese.
Il disagio che il lettore percepisce è lo stesso che pervade il cuore della protagonista. È evidente che è estranea a tutto il contesto, quasi fosse una perfetta intrusa, una bambola di cera dimenticata per sbaglio in quel nobile ciarpame che sembra avere invaso, nei secoli, le stanze della dimora, soffocandone ogni possibile respiro: pergamene, astucci di cuoio, crocifissi, suppellettili varie e ridondanti sono solo gli orpelli di una decadenza che su tutto si posa, neanche fosse un velo funebre, castigato e pesante, tanto da toglierle l’aria e renderla inquieta, vaga, incline a pensieri che oscillano tra il languido e il tormentoso. La marchesa è fuori posto, stonata, distonica. E non perché in fondo è una che viene da fuori: «Non proprio in Austria, ma in Friuli, sui confini», una terra selvatica e altra almeno quanto lo è lei, infestata da banditi, contrabbandieri, imperiali, schiavoni; ma piuttosto perché tra tutto quello che l’abile narratrice descrive – rivelando un calamo raffinato e coltissimo – è quanto di più vero abbia mai messo piede in quelle stanze. Bella e volitiva, la sua immagine ci giunge restituita appena dall’opaco baluginio di uno specchio: «Si girò di tre quarti, abbassò la scollatura, fece sporgere un seno, si osservò nello specchio. Si sorprese di poter somigliare a un’immagine pagana». Una dea forse. Una cacciatrice selvaggia e feroce. O più propriamente una donna, che attorniata da figure di omuncoli è giunta sul punto di compiere la sua più nobile e alta metamorfosi: quella di divenire finalmente padrona di se stessa: «Si decise, non ubbidirò a nessuno, dirò sempre di no». Ce ne innamoriamo subito. E come sarebbe mai possibile il contrario, scorgendone i tratti del corpo e dell’anima che ben si distinguono in una così folta pletora di dame insopportabili e vacui cicisbei? Tra tazze fumanti di «cioccolatte», bagni profumati da «boccette, scatoline, vasetti di varie pomate e ampolle» nonché acconciature alla francese, con tanto di piume di guarnizione, e «frutti gelati, i cialdoni, le confetterie, malvasia dolce e garba e moscato di Cipro», potrebbe sembrare che il destino di Costanza sia segnato da un copione di frivola vuotezza. E invece lei decide di non essere una come tu mi vuoi: «Non reggeva la parte che si era imposta, si sentiva una estranea e dopo ogni portata vedeva la sua immagine, nel sottopiatto di specchio, vagamente deformata».
Saprà scegliere. Forse spingendosi nel cuore di quella terra primigenia e antica, dove i nomi dei luoghi hanno un vago sentore ostrogoto, e tutto può apparire più sensuale, più vero e vivo. Una landa del Destino in cui scende «la notte friulana a coprire una sterminata distesa di terre, arativi coperti di brina, biancori di grave e acque ghiacciate, addensamenti di tronchi in un intrico di rami spogli a formare un disegno che si diradava verso il cielo». —
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