Un violinista morto E il passato riaffiora oltre ogni giustizia

Ecco la seconda opera selezionata dalla giuria Un delitto porta alla luce una storia di guerra
Di Lucia Gazzino

“Il forte è suo, ora. Lo difenda!". Ripensando alla sua prima inchiesta, il giovane maresciallo Elena Maria Lombardi avrebbe ricordato così quel passaggio di consegne del suo capitano e la piega enigmatica delle sue labbra frutto di preoccupazione e figlia dell'esperienza.Il Capitano Castelvecchio, Guglielmo Argante Castelvecchio, si era concesso un ritiro alle terme dopo anni trascinati fra un caso e l'altro al comando di quella piccola stazione dell'arma, si rumoreggiava di un crollo di nervi. Non c'era neppure il suo braccio destro Mineo rinchiuso da giorni in una stanza d'ospedale ad assistere la moglie per un parto prematuro, rischioso ed annunciato. Era da sola al comando della stazione, per la prima volta, un salto nel vuoto come una trapezista appesa in alto e protetta da un cerchio di rete: un piccolo coriandolo visto dal culmine del tendone. La sua rete erano stati i suoi superiori e quella rete era, ora, lei per i colleghi divenuti, nell'arco di una giornata, collaboratori e sottoposti.

La caserma di mattoni rigidi e regolari in Corso Trento e Trieste proiettava una massiccia ombra rossastra sull'asfalto traslucido e dai suoi tre piani fronteggiava i platani immobili, mentre il caldo giallo della mattina filtrava attraverso le foglie palmate. Tutte le finestre del condominio di fronte, tranne una, erano spalancate e le piastrelle verdi della facciata brillavano come strani smeraldi urbani.

Aveva fame di aria; un appetito vorace tenuto represso. Si rassicurò da sola come fanno i bambini nel buio della loro camera, o come avrebbe fatto con uno dei suoi uomini.

"In fondo, a parte qualche rissa fra ubriachi, una zuffa fra spacciatori e liti fra prostitute che cosa vuoi che capiti qui in Luglio e di sabato?" La cittadina sonnacchiosa e sonnolenta, con una presunzione di centro importante, era, invero, spopolata. Voleva un caffè. All'alba si era alzata dopo una notte tutta saliscendi e meticolosamente si era preparata nascondendo le armoniose forme nell'austera divisa nera dell'arma. Rimaneva intatta la sua femminilità dolce, la luce a mandorla degli occhi scurissimi e la morbidezza del riflesso ambrato della pelle. Insensibile al caldo, aveva ignorato qualsiasi altro piccolo rituale mattutino come la, seppur frugale, colazione fatta di caffè, caffè, caffè, le tre tazzine della sua moka.

Non fece in tempo a lasciare la scrivania che Truant, l'altro maresciallo, un ragazzo in un'anima lunga, lunga e magrissima, dallo sguardo chiaro e pallido, la chiamò. Era stato trovato un morto, proprio nel grande palazzo verde dirimpetto alla finestra del loro ufficio.

Al terzo piano del 45 di Corso Trento e Trieste viveva il violinista Janko Tadek. Ogni sabato alle nove precise Ana, studentessa-lavoratrice e dipendente della ditta di pulizie Lindo, come gridavano i caratteri fosforescenti dalla maglietta rossa appoggiata sul seno prosperoso, saliva da lui. Lei spiegò, in lacrime, che parlava volentieri con il professore in croato, la loro lingua madre. Quella mattina il signorile ascensore si era aperto sull'atrio, invaso da un lezzo acido e pungente, di fronte alla porta spalancata. Circospetta entrò."Lui era là". Indicò l'uomo.

Riverso, il sole impietoso batteva su quel corpo abbandonato senza grazia, privo di dignità: opera magistrale della morte. Giaceva davanti a un trumeau in lacca rossa e a un pianoforte aperto. Poco il sangue appena raggrumato fra i riccioli biondi e argentei, il viso appena segnato dalle rughe contorto in una smorfia beffarda. Poteva avere meno di cinquant'anni e un fisico forte d'atleta più che da musicista. Le dita diafane e nevrili si chiudevano in un artiglio doloroso e uno spasmo del polso sinistro mostrava una pelle lacerata da una ferita circolare.

Cadendo, aveva, di certo, battuto la testa sullo spigolo del trumeau scalfito e imbrattato da un gocciolio di sangue rappreso. Se non fosse stato per la porta aperta e quello sfregio al polso si sarebbe potuto pensare davvero ad un incidente domestico come tanti.

Il maresciallo Elena Maria rifletteva "E' pieno ma spoglio". Non era spoglia la sala-musica con violini e leggii carichi di spartiti, né le pareti con diplomi e quadri, lo erano invece i mobili scuri spogli da ricordi. Entrò in camera da letto: una cella francescana, da dove udì il medico legale confermare il trauma cranico. Aprì il comò, custode dell'unica foto di Tadek circondato da ragazzi e ragazze sorridenti. Ognuno imbracciava il proprio violino, chi con amore chi con rassegnazione; sul retro si leggeva: "19 Giugno 2015, Conservatorio Pergolesi. Saggio di fine anno". Il volto era un abbozzo di serenità in un'espressione di plastica; vi era vuoto e assenza.

Il platano ghermì, con la sua ombra, il corpo disteso come fosse una coperta oscura e volesse portarlo con sé non appena calata la notte. La Lombardi ordinò a Truant di cercare i parenti tramite il consolato o l'ambasciata Croata, e in caso di esito negativo convocare l'interprete e chiamare Zagabria. Janko Tadek, era nato in Croazia a Bjelovar, 8 Marzo 1970. Violinista. Capelli biondi, occhi castani. Nessun segno particolare. Così dicevano i documenti. In bagno: Xanax, antidepressivi e forti antidolorifici e bottiglie nascoste di Pelinkovac. Un laboratorio chimico per l'oblio.

Intanto il carro funebre aveva inghiottito il cadavere avvolto in una custodia scura e, la Pubblico Ministero, arrivata in ritardo in quel sabato afoso, aveva sollecitato, come al solito, una soluzione rapida.

Il vecchio condizionatore dell'ufficio sbuffava ritmando le ore e portava refrigerio ai pensieri. Elena Maria si soffermò a lungo sulla foto del professore e si accorse che l'ecchimosi al polso sinistro aveva sostituito un bracciale d'argento scuro con mille gocciole e una testa di serpe con occhi di rubino. Risultò essere una cavigliera da donna di fattura ottomana del 1800.

"La prua doveva puntare ad Est".

Trascorsero le ore fra convocazioni e interrogatori di allievi, genitori, colleghi e condomini, stranamente poco curiosi e poco affranti. Tadek non lasciava tracce dietro di sé, appariva discreto, riservato senza alcuna vita privata. I suoi uomini setacciarono il quartiere e il suo volto viaggiò ovunque in Italia e fuori.

Il maresciallo Lombardi, alternando lunghi sorsi di acqua fresca ai morsi del panino accaldato portato dal Bar Trieste e ripulendosi la bocca ingollando caffè in quantità, rimase seduta alla sua scrivania ossessionata dall' horror vacui, attendendo un ritaglio di stoffa per ricucire quella vita e quella morte.

A notte fonda, in pochi istanti una tempesta di notizie arruffò le sue supposizioni. Il patologo aveva trovato le schegge di lacca rossa del trumeau infisse nel cranio. La morte era stata istantanea fra le sette e le nove del mattino, ma l'uomo aveva le lenti colorate i suoi occhi erano in realtà grigi, aveva subìto una plastica al naso, la schiena era ricoperta da cicatrici e cheloidi dovuti ad un'estesa ustione. Di certo non era l'uomo che diceva di essere e quello non era un omicidio premeditato.

Da Zagabria fecero sapere che non era mai esistito in tutta l'ex- Jugoslavia nessun uomo con quel nome e quell'età. E non era finita qui: un ex-giornalista insonne della Reuters aveva riconosciuto in Tadek, malgrado un naso più minuto e meno appuntito, Aleksandar Dalibor Babic. Serbo di Belgrado, nipote di uno dei colonnelli più feroci della guerra serbo-bosniaca, chiamato il solitario, o anche il cecchino-violinista. Aveva partecipato alla pulizia etnica a fianco dello zio senza mai opporsi a uccisioni e stupri. Portava sempre con sé il violino e dopo giornate lunghe e sanguinose, di sera, suonava melodie romantiche, sprezzante del dolore inflitto. Dato per morto in un incendio si erano perse le tracce dalla cessazione della guerra fino al 2011, quando furono trovati suoi spartiti per "violino solo" nel bunker in cui era stato catturato lo zio.

Nuove luci e nuove ombre sulla vittima. La Lombardi sussultò, ripensò alla testimonianza del giovanissimo papà di Alessandro, l'allievo prediletto dal professore e a lui accanto nella foto. Si chiamava Matteo Venturini, restauratore, ed era nato a Kravica in Bosnia. "Come posso essermene dimanticata!", l'aveva già visto in un'auto parcheggiata davanti al bar Trieste la mattina dell'omicidio. Inspirò guardando la finestra di fronte, poi si rinfrescò, quindi riconvocò Venturini. Il sospetto si era portato l'intera famiglia: Alessandro, la piccola Emily e la moglie Ina, tutti in tenuta da mare. Iniziò l'interrogatorio mentre il giovanotto bruno, volgeva lo sguardo anemico alla sua famiglia. Emily correndo verso il padre inciampò e il contenuto della sua borsetta rosa, aprendosi, si sparse a terra. Un serpe di gocciole d'argento e dagli occhi rubino strisciò insidioso.

Il padre sgranò gli occhi e abbassò il capo, il resto fu un torrente in piena di parole ed emozioni.

Prima di essere adottato Matteo Venturini si chiamava Yusuf Imamovic aveva dodici anni durante il massacro di Srebrenica. Suo padre e i suoi fratelli erano stati portati in montagna e non li rivide più. Aleksandar Dalibor Babic l'aveva misurato con un fucile, Yusuf era minuto e gracile al tempo, e non essendo più alto della canna venne graziato e mandato a Tuzla. Fu separato dalla mamma Jasmina, trascinata a forza dal cecchino-violinista in un mattatoio dove la stuprò ripetutamente e la diede in pasto ai suoi compagni. Si tenne come trofeo di guerra il serpe di rubino. Jasmina morì suicida in un manicomio. Matteo aveva riconosciuto la cavigliera della madre e la voce di Babic al saggio finale. Poi all'anniversario dell'11 Luglio volle riprendersi l'unico ricordo della madre. Aleksandar, implorò il suo perdono. Gli anni erano trascorsi nel rimorso quotidiano anestetizzato da farmaci e alcool: non era mai riuscito a lavarsi via il lerciume del passato. Era cambiato dopo l'incendio dello scannatoio e l'anno vissuto in ospedale. Senza documenti, senza parenti, cambiò varie identità per inseguire lo zio. Trovatolo finse affetto e lo denunciò.

Malgrado quella confessione e la richiesta di perdono, Venturini l'aveva afferrato per il polso per strappargli la cavigliera. Il violinista, indebolito dall'alcool e dai ricordi barcollò e cadde. Sorridendo alla raggiunta libertà

Il maresciallo Elena Maria Lombardi, compiuto il suo dovere, desiderava una pietà fresca e pulita.

Vi era, forse, giustizia oltre ogni giustizia.

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