Siviglia, 10 agosto 1519: parte la spedizione. Cinque mesi tra ammutinamenti e “uomini giganti”

La flotta diretta alle isole delle spezie trasporta 240 uomini di equipaggio. Arrivano inverno e maltempo: una nave affonda

Il 10 agosto 1519 le cinque navi della flotta di Ferdinando Magellano, armate per raggiungere le isole delle spezie navigando verso occidente, salparono da Siviglia, discesero il Guadalquivir ed entrarono nell’Atlantico il 20 settembre dello stesso anno. Il capitano, a bordo della Trinidad assieme al futuro narratore del viaggio, il vicentino Antonio Pigafetta, aveva appena fatto testamento.

L’equipaggio era composto da 240 uomini di molte nazionalità. In maggior numero, naturalmente, i sudditi di Carlo I di Spagna sotto la cui bandiera la spedizione partiva. Numerosi erano tuttavia anche i portoghesi, una trentina, tanto che il re aveva dovuto più volte ordinare di ridurne il numero. Le stive erano colme di tessuti, oggetti e manufatti dell’artigianato spagnolo che sarebbero serviti come merce di scambio per l’”oro” che si ricercava in Oriente: la cannella, il pepe e soprattutto i chiodi di garofano e la noce moscata che facevano impazzire gli europei.

Dalle Canarie, dove fece il pieno di derrate alimentari e acqua, la flotta discese l’Atlantico tenendosi alla larga dalle portoghesi Isole di Capo Verde, volse quindi decisamente a ponente puntando a oltrepassare l’equatore. La conflittualità tra portoghesi e spagnoli non tardò a farsi sentire anche perché le istruzioni reali su chi comandasse la flotta lasciavano vari punti in sospeso: Magellano era il capitano ma uno spagnolo, Juan de Cartagena, era stato nominato dal re sovrintendente e «persona congiunta» del portoghese, nonché capitano della Sant’Antonio, la più grande delle cinque navi. Cartagena, assieme ai comandanti spagnoli delle altre navi, pretendeva di essere informato sulla rotta e non accettava di dover semplicemente seguire l’ammiraglia. Questo faceva infuriare Magellano, il quale lamentava inoltre che i capitani spagnoli non lo salutassero chiamandolo «capitán general y maestro» ma solo «capitan y maestro». Questioni di etichetta ma anche di sostanza.

Nel dicembre 1619, dopo oltre due mesi di navigazione oceanica, l’armata mise l’ancora a Rio de Janeiro, impresidiata terra portoghese ricca carne, pesce, patate e frutta. Per un amo da pescare, annota Pigafetta nella sua cronaca, gli indigeni danno cinque o sei galline, per un’accetta o un coltello grande una o due delle sue figliuole giovani per schiave e dunque, vien da riflettere, poco dovette importare se «sua mogliere non daranno per cosa algiuna».

Dopo due settimane di sosta e ricostruzione delle scorte la flotta riprese il largo, seguendo verso sud la costa sudamericana fino alla grande insenatura del Rio de la Plata, che venne riconosciuto come il luogo dove era giunta la sfortunata spedizione spagnola di Juan de Solis nel 1516. Sbarcato a terra con dei suoi uomini, questi era stato ucciso dagli indigeni, probabilmente i guaranì che praticavano l’antropofagia. Accertato che non vi era oro, Magellano limitò prudentemente i contatti con gli indigeni e riprese la sua ricerca dello stretto che portava al Pacifico.

Dopo varie settimane di navigazione, la vigilia di Pasqua del 1520 la flotta entrò nel rio, cioè nella baia, di San Juliàn. Con le provviste ormai finite e le insidie dell’inverno australe alle porte i malumori dell’equipaggio, dove serpeggiava sempre più il sospetto che Magellano fosse rimasto segretamente al servizio del suo sovrano naturale, sfociarono in un ammutinamento. Guidata da Juan de Cartagena e da altri due capitani spagnoli e forte di diverse decine di uomini la congiura venne però scoperta e spenta nel sangue: i capi che non morirono subito furono squartati o, come Juan de Cartagena e un sacerdote suo sodale, abbandonati in un’isola gelida per morire di stenti. Decine di marinai e uomini della flotta che avevano appoggiato l’insurrezione furono condannati a morte ma infine graziati.

Il viaggio proseguì, avanzando in un mare sempre più temibile e sconosciuto. In una di queste esplorazioni una delle navi affondò e ciò contribuì a suggerire a Magellano che era il momento di fermarsi e svernare. Lo fece al riparo di una baia sulle cui rive non si ebbe per settimane segno di vita; poi cominciarono a farsi vedere degli uomini giganti, che il Pigafetta chiamò “Patagoni”, forse sul calco del mostro Patagòn, il personaggio di un romanzo cavalleresco spagnolo. Le pagine del vicentino sui giganti patagoni, che in realtà erano gli indios tehuelche piuttosto alti di statura, inaugurarono un mito che durò per secoli, oltre a dare il nome all’estremità meridionale del subcontinente americano. Setebòs, il loro demonio maggiore, finì addirittura nella Tempesta di Shakespeare, a testimonianza della diffusione europea del racconto di Pigafetta. Prima di riprendere il mare Magellano fece salire due giovani patagoni sulla nave e con un trucco, mostrando loro specchi e arnesi, riuscì a metterli ai ferri con l’intenzione di portarli in Spagna: sarebbero morti lungo il viaggio.

Dopo cinque mesi, finito l’inverno e comparsi i venti favorevoli, le navi infine misero nuovamente la prua verso sud. L’imbocco dello stretto che avrebbe aperto loro la via per l’altra parte del globo non era distante. —

(2 - continua)
 

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