Rumiz e l’Europa a rischio balcanizzazione: «Una frontiera di pace o perdiamo l’identità»

Pozzuolo, Lo scrittore ha presentato il libro “Sconfinare” con l’autrice Donatella Ferrario. Il rimpianto per quando c’era Alpe Adria

UDINE. L’alterità, personale e di luogo, è stata sempre la grande molla che ha spinto l’umanità al viaggio verso il diverso o l’ignoto.

Se ne è parlato al centro di accoglienza Ernesto Balducci a Zugliano, dove è stato presentato “Sconfinare – viaggio alla ricerca dell’altro e dell’altrove” scritto da Donatella Ferrario per i tipi delle edizioni San Paolo.

A introdurlo è stato Paolo Rumiz, che ha conversato con l’autrice e la consigliera comunale triestina Fabiana Martini. Dal libro, costituito da una serie di interviste (tra gli altri a Claudio Magris, Abraham Yehoshua e allo stesso Rumiz) esce l’idea che il confine possa non essere soltanto un elemento negativo, come ci spiega il giornalista e scrittore triestino in questa intervista in cui ricorda con riconoscenza Adriano Biasutti, mette in guardia contro i rischi di balcanizzazione, ed esorta i concittadini a fare massa critica come i friulani.

Dunque l’ansia europeista non comporta un’automatica ostilità verso il confine?

«Caduto il muro di Berlino sono iniziati a sorgere tanti altri muri, specularmente alla cancellazione dei confini sono sorte altre barriere. Paradossalmente c’era molta più idea di Europa, nelle menti e nei cuori, quando si andava a Klagenfurt mostrando la carta verde o a Postumia con la “propusnica”.

Avevamo l’“Alpe Adria”, grande idea di una figura straordinaria, quell’Adriano Biasutti che è stato fatto finire come sappiamo solo perché non abbastanza baciapile. Era molto più avanti dei politici di oggi».

Adesso al confine non si mostra più niente…

«Ma l’Europa la si sente meno, e l’Ue è diventata lo scaricabarile di tutte le recriminazioni. Contemporaneamente rischiamo che vengano del tutto erose le differenze. Il globale può annichilirci come cultura delle diversità, instaurare, ovunque, un grande minestrone privo di identità».

Allora la frontiera può tornare utile?

«Se parliamo di una frontiera di pace, permeabile, leggera, decisa dai popoli, può essere un elemento tranquillizzante, antidoto ai nuovi muri, ai reticolati, ai porti chiusi.

L’ho detto in “Trans Europa Express”, raccontando del mio 20 dicembre a Botazzo, piccolo valico agricolo di Val Rosandra tra Italia e Slovenia: una grande esultanza unita alla percezione di una nuova paura, quella che, caduti i confini, i due mondi potessero miscelarsi a tal punto da non rendere più interessante lo sconfinamento».

Forse per questo il “prima noi” trova consenso?

«Però il “noi” può portare a suddivisioni senza fine, ne abbiamo un esempio a due passi. Andando avanti così procediamo verso la balcanizzazione».

Trieste è un luogo in cui la frontiera e il “prima noi” hanno fatto più male che altrove.

«Nel Novecento. Per cinque secoli la città ha respirato Europa. Comunque il problema di Trieste, è stato ed è rappresentato non tanto dal confine fisico, che è anzi l’unico elemento unificante, nel segno della claustrofobia, quanto dalle innumerevoli divisioni interne.

È un mondo che vive di conventicole, a tutti i livelli sociali, un insieme di isole che non riesce neanche a sentirsi arcipelago. Molti diversamente dal Friuli, dove la consapevolezza di essere una realtà comune la vince sulle diversità politiche. I friulani si uniscono sempre, se c’è da portare avanti la bandiera della Piccola Patria, perché hanno un’elevatissima autostima, al contrario dei triestini, che si prendono in giro da soli, e subiscono».

Subiscono?

«Faccio un esempio: la storica fecondità di Trieste a livello letterario è riconosciuta nel mondo. Eppure, a livello di eventi è surclassata già da Gorizia, per non parlare di Pordenone.

Non ha – per dire – un festival sulla cultura di mare, legato alla Barcolana, che viene vissuta dai tanti che vengono nel golfo come una baraonda olezzante di griglia, senza tracce di quell’identità che andrebbe invece proposta.

E il rifacimento del Porto Vecchio? È accettato, subito, con i reticolati, la decisioni prese a spizzico, la mancanza di un masterplan. Non c’è, in città, un solo urbanista, o un solo architetto che abbia il coraggio di dire: no, così non va. Per timore di essere lasciato fuori dal banchetto degli avanzi». —


 

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