Riccardo Bee, titano delle Dolomiti Bellunesi

Un libro mette a fuoco l’immagine dell’avventuroso, dimenticato scalatore morto sull’Agnèr

UDINE. Nella storia dell’alpinismo ci sono grandi nomi di uomini che hanno raggiunto fama mondiale per le loro imprese. Ci sono però infiniti modi di praticare l’alpinismo, tanti quanti sono gli uomini e le donne, e capita che ci siano anche grandi alpinisti senza fama, per destino o per scelta. Uno di questi è Riccardo Bee (1947-1982). Chi si ricorda di Riccardo Bee? Ben pochi, anche nella già ristretta cerchia di appassionati delle attività estreme. Bee era un ingegnere originario di Lamòn e diventò in breve tempo un alpinista fortissimo, avventuroso e solitario, praticando prevalentemente sulle Dolomiti Bellunesi, le montagne di casa.

È merito di due friulo-giuliani l’aver tentato di mettere insieme i tasselli di un mosaico frammentario e lacunoso per restituire l’immagine sfuggente di un alpinista dimenticato, schivo, la cui vita fu assai breve. È infatti appena uscito, nella collana I rampicanti delle Edizioni Versante Sud, Riccardo Bee. Un alpinismo titanico, di Marco Kulot e Angela Bertogna. Gli autori sono madre e figlio e Kulot è un addetto ai lavori, in quanto giovane guida alpina. «Mi incuriosivano – così Kulot – quelle montagne selvagge (le Bellunesi, ndr) e vedevo citato spesso Bee nelle guide della zona, su vie aperte in solitaria. La sua figura mi è parsa vicina al pontebbano Ernesto Lomasti, di cui parla il libro di Luca Beltrame. Erano due alpinisti ai massimi livelli, realizzavano imprese da soli e non le pubblicizzavano, al contrario di quanto si fa oggi. Così sono andato a ripetere con un amico il Pilastro Bee sulla parete Nord-Ovest dell’Agnèr», la montagna su cui, salendo a Nord-Est, Riccardo Bee perse la vita.

Coetanei di Bee, solitari e cari agli dei furono anche il vicentino Renato Casarotto, il buiese Angelo Ursella e il triestino Enzo Cozzolino, tutti scomparsi tra i Settanta e gli Ottanta. Ma il libro non indaga le motivazioni dell’alpinismo solitario, profonde e impenetrabili. E poi Bee ebbe compagni di cordata prima di prediligere l’assetto da solista. Il libro di Kulot e Bertagna accosta momenti di vita personale alle ascensioni nei luoghi più impervi e appartati, che spesso comportavano un’intera giornata di avvicinamento a piedi: «Mi ha colpito – sempre Kulot – il fatto che arrampicasse come un professionista per poi al lunedì rientrare al lavoro di insegnante». Ripercorre le fasi di infanzia e giovinezza attraverso capitoli narrati in terza persona. E accosta a questi le testimonianze di chi lo aveva conosciuto: «Anche i famigliari di Bee ci sono venuti incontro. I fratelli avevano già in mente di resuscitare la sua figura dopo il libro di Luisa Mandrino, che è incentrato solamente su Franco Miotto, compagno di cordata di Bee tra il 1973 e il 1979 (L’uomo dei viàz, ndr)». La rottura tra i due avvenne per motivi che non si conoscono e il libro, volutamente, non indaga.

Semplicemente, lo scritto alterna fasi della vita e récit d’ascension alla ricerca di un filo biografico precocemente spezzato. Gli autori hanno fuso le rispettive competenze – alpinistiche e narrative – in un unico stile. «Abbiamo cercato di conservare il rispetto dovuto alla famiglia di Bee, che lasciò la moglie con una figlia in grembo e un’altra di otto anni».

Melania Lunazzi

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