Ribelle o intimista lui ne ha per tutti

Fenomenologia del Komandante: non c’è italiano che non l’abbia orecchiato

Lui canta «C'è chi dice no», ma pare proprio che tutti quanti gli dicano di sì. Il coro intona «Siamo solo noi» e alla fine quel «noi» è – o almeno sembra – un «tutti»: nello stesso tempo una comunità compatta e uniforme, che nella sua figura trova un comune minimo denominatore e un insieme composito di mille e mille tribù differenti, formate da individui, «ognuno in fondo perso dentro ai fatti suoi», che riconoscono almeno una parte di sé nelle sue canzoni e che «non hanno né santi né eroi»... a parte lui.

Lui è Vasco Rossi. Da quarant'anni la sua faccia, la sua voce, le sue parole, la sua musica sono, anche se in misura diversa, parte di tutti noi. Almeno in Italia. Con il suo repertorio di più di 170 canzoni e 32 album, tra raccolte “in studio”, “live” e compilation, con decine e decine di video, con centinaia e centinaia di concerti, con migliaia e migliaia di articoli, servizi, pagine web che lo riguardano, da più punti di vista, e con oltre 30 milioni di copie di dischi venduti, è difficile trovare un cittadino italiano che, dal 1977 a oggi, non abbia avuto a che fare con lui, in qualche modo. Le sue canzoni le «cantan gli operai felici sul lavoro» e «anche i figli a scuola la san già cantare in coro», come si potrebbe dire riprendendo le parole degli Statuto. I suoi testi sono patrimonio comune, anche se talvolta in maniera inconsapevole, di genitori, figli e anche nipoti. Vasco è di tutti e ognuno ha il suo Vasco: quello ribelle, quello sconvolto, quello intimista, quello sconfitto, quello vincente, quello rock, quello melodico, quello delle cassette registrate dopo aver comprato “Bollicine” mettendo assieme i soldi con un gruppo di amici, quello dei cd, dei dvd, del blue ray e dei megaconcerti negli stadi, quello “come noi” e il “Komandante”.

E ognuno ha la sua canzone – o le sue canzoni – di Vasco: quelle che hanno segnato adolescenza gioventù e quelle in cui capita di inciampare quando si è al supermercato o nella sala d'attesa del dentista, dall'ironia tagliente di “Ambarabacciccicoccò” al rock di importazione de “Gli spari sopra” , dai classici “Albachiara”, “Deviazioni”, “Colpa d'Alfredo”, “Sono ancora in coma” a “Stupido Hotel”, “Domenica lunatica”, “Cosa succede in città?”...

A pensarci bene, il tutto è chiaro ed evidente già nel suo nome e nel suo cognome. Il non comune “Vasco” e il diffusissimo “Rossi” sono una sintesi perfetta di originalità e conformismo, di trasgressione e di rassicurazione. Si comprendono così tanto il culto che abbraccia sia l'uomo sia il personaggio e il fatto che in tanti si riconoscano nelle passioni e nelle emozioni espresse dai suoi testi, dalle sue musiche e persino dai suoi monosillabi strascicati, quanto quella distanza e quella diffidenza, brillantemente espresse una ventina d'anni fa dalla band hardcore punk torinese BelliCosi che cantava «Continua ad ascoltare Vasco, ché grazie a lui non abbiamo mai capito un cazzo!». Più o meno come avrebbe potuto cantare lui stesso un paio di decenni prima.



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