Quattro sorelle nel ’900: una saga familiare tra il Friuli e Trieste

Il romanzo di Barbara Pascoli in una cornice storica: «Donne che sapevano accettare il loro destino»

Valerio Marchi
La copertina del libro e, a destra, Barbara Pascoli, autrice di “Sorelle. Una saga tra il Friuli e Trieste”
La copertina del libro e, a destra, Barbara Pascoli, autrice di “Sorelle. Una saga tra il Friuli e Trieste”

UDINE. «Erano tutte in cucina, accanto al fogolâr acceso…»: ha inizio così il primo, brevissimo capitolo (sono trentuno in tutto) del nuovo libro di Barbara Pascoli, edito da Kappa Vu. E poi? Alla fine del secondo capitolo, altrettanto breve, leggiamo: «Poi scoppiò la guerra». Queste prime pagine sono, di fatto, il prologo di un lungo percorso che, a partire dallo scoppio della Grande Guerra, si dipana sino alla fine del secondo conflitto mondiale.

Sorelle (sottotitolo: “Una saga tra il Friuli e Trieste”) coinvolge il lettore con una scrittura precisa, equilibrata e scorrevole, capace di far parlare i fatti con la forza che, come sempre, li rende più efficaci delle parole stesse. La storia è assai articolata e movimentata (anche geograficamente: dal nostro territorio ad altri luoghi in Italia e all’estero, fino in America) ma non complicata, e le sorelle sono quattro. Dalla foto che le ritrae nella seconda di copertina si desume che sono realmente vissute, come l’autrice stessa ci conferma.

«Dolores era mia nonna e le sue tre sorelle erano, in ordine di nascita, Caterina, Ada, Oliva».

È la storia della sua famiglia, allora?

«Solo in parte. Ho scelto queste quattro donne perché, fra quante vissero nella prima metà del secolo scorso, sono quelle che conoscevo meglio. Tuttavia, nelle loro vicende reali se ne innestano numerose altre».

Altre di sua invenzione, dunque.

«Non proprio, perché comunque sono tutte tratte da altre situazioni reali e da altre suggestioni, anche da invenzioni altrui: fatti di cronaca, storie che mi sono state raccontate oppure che ho letto su libri o visto in qualche film».

Ada, che è forse la protagonista più interessante, dopo un evento personale traumatico si scopre veggente: realtà o finzione?

«La vera Ada non era una veggente, ma l’idea di farla figurare come tale è legata a fatti e persone di cui sono a conoscenza diretta».

La sua, dunque, è stata un’opera di montaggio, se così si può dire.

«Esattamente. Non invento mai storie dal nulla, parto sempre da cose che conosco: è così che fatti veri, dapprima raccolti e poi composti in una sorta di collage originale, assumono una dimensione nuova».

La cornice storica, peraltro, è vasta e complessa…

«Sì, e difatti mi ha richiesto molto studio e particolare attenzione. Anacronismi e imprecisioni sono sempre in agguato».

Al di là della storia, che è sicuramente intrigante (e, come scrive Angelo Floramo nella quarta di copertina, impastata «di sangue, terra, rabbia e dolore»), c’è un messaggio di fondo che ha voluto comunicare ai lettori?

«Principalmente questo, che riguarda le donne di quei tempi: coraggiose, potenti, ardite. A modo loro, eroine che non cercavano il loro posto a dispetto di tutto, come è avvenuto dalla seconda metà del Novecento in poi».

Ci spieghi meglio.

«Erano donne che sapevano accettare molto più di noi il loro destino, senza tante storie. Eppure, proprio in quel loro destino così arduo, spesso tragico, riuscivano a trovare da sé, senza l’appoggio di un uomo, la loro strada. Non solo, ma la trovavano senza l’accentuato individualismo di oggi: in loro era sempre profondamente radicata l’idea della famiglia e della comunità». —

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