“Poesie a Casarsa”, mistico atto d’amore di Pasolini che ispirò una generazione

UDINE. Affascinato dalla parola rosada, scaturita dalla voce di un giovane contadino in una mattinata di una delle sue mitiche estati giovanili a Casarsa, Pasolini scoprì la forza e le potenzialità del friulano nella vulgata della destra Tagliamento.
«Qualunque cosa stessi facendo – scriverà poi in Empirismo eretico ricordando quel magico momento –, dipingendo o scrivendo, mi interruppi subito…E scrissi subito dei versi, cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada».
Da quella fascinazione nacquero le prime poesie in friulano di Pasolini, che a sue spese uscirono nel 1942 in un volumetto di 48 pagine edito dal libraio antiquario di Bologna Mario Landi e intitolato “Poesie a Casarsa”.
Ora quel volume rivede la luce, fortemente voluta dal Centro Studi Pasolini di Casarsa, in copia anastatica con gli stessi caratteri e stessa grafica per i tipi di Ronzani editore.
Ad accompagnare questo libro, che sarà presentato venerdì 18 a Casarsa, un prezioso contributo del critico Franco Zabagli, “Il primo libro di Pasolini”, nel quale, oltre a una serie di riproduzioni fotografiche dei manoscritti pasoliniani, si fa la storia di “Poesie a Casarsa”, una sorta di “apprendistato poetico” per l’intera vicenda poetica di Pasolini, che proprio nelle radici friulane, trovò la sua prima e autentica fonte di ispirazione.
«Per Pasolini, scrive Zabagli, quella di scrivere in dialetto fu un’intuizione che corrispondeva alle più intime necessità d’espressione, una scelta grazie alla quale seppe (…) orientare una volta per tutte la propria vocazione verso un imprevedibile, coraggioso sperimentalismo, che resterà sempre il segno essenziale di tutta l’opera sua».
Il volume, stampato in 300 copie numerate finì nella mani di un critico assai autorevole come Gianfranco Contini, che ne rimase entusiasta scorgendone la novità e l’originalità e determinandone la fortuna al punto che di “Poesie a Casarsa” si è parlato perfino di “leggenda”.
«Per questo – ancora Zabagli – un libro così “leggendario” della poesia del Novecento italiano, meritava da tempo di esser riproposto nella forma, anche materiale, di allora: proprio come uscì nel ’42, con le sue acerbità – nella scrittura del dialetto, (…) – ma con la bellezza misteriosa, fragile e irripetibile che hanno le poesie che i poeti scrivono quando sono ancora ragazzi».
E ragazzo Pasolini lo era eccome, incantato nella «felicità dell’estate del ’41 raggiunta tra sogno e realtà nelle “misteriose mattine di Casarsa” nella rustica bohème del mondo paesano sentito sempre più come luogo natio», come scrive Nico Naldini nella superba biografia dedicata al cugino.
Una bohème, precisa Naldini, in cui risuona il friulano «ancora autenticamente contadino. Pier Paolo, che lo ha ascoltato fin da bambino, quando comincia a scriverlo ha la consapevolezza di compiere una sorta di mistico atto d’amore», conquistando per questa via quella lingua incontaminata e assoluta che era il mito inseguito nelle sue letture dei poeti ermetici».
E quanto la riproposizione oggi di Poesie a Casarsa sia importante, è ancora Naldini a sottolinearlo, in specie «per studiare il percorso linguistico da cui è partito Pasolini, ovverosia da un friulano pressoché ufficiale, con le desinenze femminili in “e”, a esempio, a un friulano più addentrato nel mistero contadino, reso cioè con le parole atte a descrivere quel mondo».
Che fu indispensabile a far scegliere a Pasolini la via della scrittura, abbandonando, solo in parte, la pittura, che, come afferma Naldini che proprio su questo si soffermerà venerdì 18, alle 17.30, a Casarsa, nella sala consiliare di Palazzo Burovich De Zmajevich «fu un’attività alla quale non sì è data l’importanza che invece ha avuto nel percorso artistico di Pasolini». —
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