Nel 1866 il plebiscito che sancì l’ingresso di Veneto e Friuli al Regno d’Italia
156 anni fa si concludeva la Terza guerra di indipendenza. Garibaldi pronto a entrare a Trento ma fu fermato: «Obbedisco»

«Colossale ignoranza, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, e la retorica che ci rode le ossa.» Questi, secondo le parole dello storico napoletano Pasquale Villari nel suo “Di chi è la colpa?”, i problemi del giovane regno italiano. All’alba della Terza guerra d’indipendenza italiana lo sfondo era quello di un paese in condizioni difficili, lo storico umbro Giuliano Procacci scrive, nel suo “Storia degli italiani”, che i politici di allora erano «troppo aristocratici per coltivare quell’attaccamento al potere e quel gusto della popolarità a buon mercato che è caratteristico dei parvenu», un elogio rivolto a una classe politica posta davanti a sfide nuove in un periodo turbolento per la penisola. La piemontizzazione dello Stivale non aveva permesso di cogliere le diverse anime dei sudditi di Vittorio Emanuele II. L’aumento della pressione fiscale e il ripristino della coscrizione militare «portarono ben presto al culmine l’impopolarità del nuovo regime» scrive lo storico francese Pierre Milza nel suo Storia d’Italia, e ciò ebbe l’effetto di amplificare il fenomeno del brigantaggio nell’Italia del Sud. Rivolte e insurrezioni però non terminarono quando nel 1865 il governo savoiardo represse tale manifestazione di disagio sociale, ma al contrario proseguirono sotto altre forme colpendo l’Italia da nord a sud, da Palermo a Torino. Ecco dunque che, con simili problemi, l’Italia si apprestava alla guerra. La prima da paese unito.
Il Regno d’Italia desiderava Roma, ma questa era difesa dai francesi di Napoleone III. L’imperatore d’oltralpe si impegnò perciò a trovare una compensazione territoriale che non scontentasse gli alleati italiani. Venne così colta un’opportunità: il cancelliere prussiano Bismarck era desideroso di ritrovarsi una Francia neutrale durante la guerra che presto sarebbe scoppiata fra Prussia e Austria, in cambio della neutralità Napoleone ottenne che venisse accettata un’alleanza italo-prussiana e in caso di vittoria fosse riconosciuto agli italiani il possesso del Veneto e del Friuli. Dall’altra parte l’Austria, ignara, temeva l’ingresso in guerra della Francia a fianco dei prussiani, motivo per cui chiese anch’essa la neutralità di Napoleone il quale accettò a patto che, in caso di vittoria austriaca, gli si cedesse il Veneto così che poi lui stesso lo potesse donare agli italiani. Fu così che nell’aprile del 1866 Italia e Prussia firmarono l’alleanza.
Il 15 giugno la Prussia attaccò l’Austria. Cinque giorni dopo l’Italia si presentò con un esercito di 220mila uomini suddiviso fra tre generali: il piemontese La Marmora pronto sul Mincio, il generale modenese Cialdini attestato sul Pò, Garibaldi alla guida di 40mila volontari in Valtellina. L’Italia aveva preparato anche la flotta, al comando era l’ammiraglio piemontese Persano che dal porto di Taranto salpò diretto verso l’Adriatico. Contro un simile spiegamento di forze l’Austria pose solo 75mila uomini al comando dell’arciduca Alberto d’Asburgo, il grosso delle truppe era infatti impegnato a fronteggiare l’avanzata prussiana da nord. L’ambiguità degli accordi diplomatici e la possibilità di ricavare in ogni caso l’annessione del Veneto e del Friuli pose i generali italiani, Garibaldi escluso, nell’incertezza su ciò che andasse fatto. Ecco però che il 23 giugno La Marmora si decise a passare il Mincio e si portò in avanti in direzione di Custoza. Alberto d’Asburgo gli mosse contro con le intere forze a sua disposizione. Sul campo di battaglia La Marmora aveva con sé solo 50 mila uomini: la battaglia fu un disastro in cui il piemontese fu costretto a ritirarsi dopo aver perso 7 mila uomini, mentre gli austriaci ne avevano lasciati sul campo 8 mila. Il giorno seguente Cialdini passò finalmente il Po’ ma solo per ritirarsi sino a Bologna, non appena saputo della disfatta di Custoza. La situazione era grave, La Marmora si dimise, ma il re non accettò e lo confermò nel comando. Si arrivò così al 3 luglio quando i prussiani sconfissero gli austriaci a Sadowa, in Boemia.
A questo punto l’Austria avrebbe voluto l’Italia fuori dal conflitto, ma la Prussia insistette che l’Italia facesse la sua parte. Ecco che allora si vide, fra le montagne in direzione di Trento, una lenta e costante avanzata di Garibaldi che impensierì non poco gli austriaci. Anche Cialdini tornò ad avanzare e l’11 luglio entrò a Rovigo dove si fermò in attesa che la flotta italiana, ancorata ad Ancona, facesse finalmente qualcosa. Persano però era in balia di disposizioni poco chiare, il ministro della marina Depretis aveva ordinato infatti all’ammiraglio di «mantenere una vigile e minacciosa difensiva»; sarà il consiglio di guerra tenutosi a luglio presso Ferrara a porre fine a tale inerzia. Si decise che Cialdini avrebbe dovuto avanzare sino all’Isonzo, mentre Persano avrebbe attaccato la flotta asburgica entro pochi giorni. Lo scontro navale avvenne infine pochi giorni dopo al largo dell’isola di Lissa dove l’ammiraglio piemontese, al comando di navi genovesi e napoletane (uniche flotte della penisola preunitaria ora inglobate nella flotta del Regno), si trovò davanti la flotta nemica guidata dall’ammiraglio Tegetthoff. Entrambe le flotte erano composte da corazzate, una novità per l’epoca. Si trattava di navi a vapore rivestite di metallo, ma ancora dotate di alberi per la velatura. Nessuno sapeva bene come manovrarle, ma alla fine gli austriaci ebbero la meglio e per questo Persano venne destituito e processato.
Davanti un simile disastro restava una sola speranza: Garibaldi. Come sostiene lo storico siciliano Salvatore Lupo nel suo L’unificazione italiana «l’unico a sapersela cavare fu, ancora una volta, Garibaldi». In Trentino l’eroe dei due mondi subì un attacco a sorpresa degli austriaci, ma ne uscì vittorioso. Il 9 agosto, quando era ormai prossimo alla presa di Trento, il nizzardo ricevette l’ordine di fermarsi perché la guerra era prossima a concludersi e Trento non rientrava fra gli accordi che prussiani e austriaci stavano siglando e a seguito dei quali si sarebbe ottenuta la cessione del Veneto e del Friuli. La risposta del generale passò alla storia per la sua laconicità: “Obbedisco”.
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