Martelli: «Quegli ipocriti che si autodefiniscono eredi di Giovanni Falcone»
L’ex ministro della Giustizia venerdì 28 aprile a Udine parlerà del suo lavoro sul giudice ucciso dalla mafia. «Questa insopportabile mistificazione è andata in scena molte volte negli ultimi 30 anni»

Venerdì 27 aprile alle 18.30 in sala Madrassi a Udine, Claudio Martelli presenterà il suo ultimo libro “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone”, dedicato al magistrato ucciso dalla mafia. L’autore dialogherà con Tommaso Cerno, Paolo Mosanghini e Luca Taddio.
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Per le generazioni più giovani forse è bene ricordare chi era e cosa ha rappresentato Giovanni Falcone. Puoi riassumercelo brevemente?
«Falcone è stato un magistrato eccezionale, celebre in tutto il mondo soprattutto per i risultati del maxiprocesso, istruito da lui e dai suoi colleghi Borsellino, Ayala, e gli altri, che portò a 19 ergastoli nei confronti di tutta la cupola mafiosa e a più di 2.200 anni di carcere per gli altri 465 imputati di mafia. Fu un risultato storico, mai visto in precedenza, e che ebbe il plauso universale, quindi non solo italiano, ma anche di altre nazioni europee e degli Usa.

Perché hai deciso di scrivere questo libro su Falcone?
«Io ho scritto più volte di Falcone in questi trent’anni, ma ho visto che si è depositata molta polvere e molta ipocrisia da allora a oggi, sino ad arrivare al paradosso che coloro che furono nemici di Falcone vivo si sono poi eretti a allievi o addirittura a eredi di Falcone una volta morto.
Questa insopportabile mistificazione purtroppo è andata in scena molte volte, soprattutto nelle ricorrenze ufficiali, come quando mi è capitato di sedermi vicino al sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che certamente si dedicò a denigrare e infamare Falcone accusandolo di tenere nascosti nei cassetti della procura i nomi dei mandanti politici dei più gravi assassinii di mafia, come quello di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa».
La giustizia sembra per certi versi non riformabile; da decenni se ne parla, eppure le riforme sono sempre lì che attendono. Quali sono dal tuo punto di vista le più urgenti?
«Io distinguerei tra riforme delicate e importantissime, a cui, però, l’opinione pubblica non sembra essere particolarmente sensibile (tra queste ci sono quelle che sono state oggetto di una iniziativa referendaria che, però, si è poi conclusa in un nulla) e di qualche timida correzione da parte della precedente ministra della Giustizia, Mara Cartabia, e che adesso sembrano in parte aprire nuove dispute sia di una maggioranza che sembra abbastanza divisa su alcuni argomenti fondamentali, sia nei rapporti con l’opposizione in cui ci sono ancora correnti e nervature che hanno un sapore giustizialista.
Speriamo che il Ministro Nordio tenga fede alla sua fama di garantista smentendo un certo disorientamento che hanno provocato le sue prime mosse da ministro, come l’invenzione di un nuovo reato, o anche come il modo un po’ spiccio in cui si è sbrigato del problema posto dalla detenzione dell’anarchico Cospito.
Ma se dovessi invece parlare in termini più generali direi che il primo problema è il fatto che in Italia, con tutte le leggi che abbiamo fatto e con tutte le misure emergenziali che abbiamo adottato, la grande maggioranza dei reati rimane impunita. In secondo luogo la lentezza della giustizia produce ancora danni rilevanti, sia ai cittadini che finiscono nel tritacarne, sia all’immagine di un Paese (e alla sua stessa economia) perché la lungaggine delle iniziative giudiziarie paralizza molte volte l’attività economica, quando non si arriva addirittura a forme veramente lesive della libertà».
Recentemente Il Riformista ha intitolato in prima pagina “Nel ’92 fu colpo di stato”. Mani pulite può essere intesa in questi termini?
«Già allora Craxi parlava di una falsa rivoluzione: una rivoluzione è anche più di un colpo di stato, in più però era falsa, nel senso che non c’è stata una sovversione delle basi della Repubblica, ma c’è stata una sovversione dello stato di diritto.
È rimasta la democrazia, però si sono usate per esempio contro il finanziamento illecito ai partiti armi repressive che erano state forgiate contro la mafia, che dovevano avere un’applicazione limitata a quel fenomeno e che invece sono state impropriamente estese (penso in particolare alla carcerazione preventiva, in tempi talvolta addirittura che hanno superato un anno di carcere preventivo contro ogni disposizione di legge, finalizzata a estorcere una confessione agli imputati).
Questa in termini tecnici si chiama tortura. La tortura è stata utilizzata in diversi casi. Penso, in particolare, nel caso di Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, trattenuto 4 mesi in carcere. Nei giorni in cui doveva essere liberato gli sono piovute addosso altre accuse per cui è stato trattenuto fino a provocare un crollo psicologico, che lo ha spinto al suicidio. Durante la cosiddetta stagione di “mani pulite” i suicidi sono stati 45, non uno o due. E la risposta è stata: “Si uccidono per la vergogna”. Cioè: non si suicidano perché sono trattenuti ingiustamente in carcere, perché la loro reputazione è fatta a pezzi da giornali e televisioni. No, si suicidano per la vergogna. È stata un’epoca infame. Segnata da tante ingiustizie».
Il tuo libro precedente è dedicato a Craxi (si intitola “L’antipatico. Bettino Craxi e la grande coalizione”): esiste oggi una questione ancora aperta? Una pagina di storia ancora da scrivere o da riscrivere?
«Allora, in genere si dice che la storia la scrivano i vincitori. Questo è stato vero negli anni immediatamente successivi a Mani pulite. Poi, via via, col passare del tempo c’è stata una revisione critica di Mani pulite e, anche, da parte di giornalisti e scrittori, la storia è stata in parte riscritta.
Insomma, questa volta i vinti non hanno ceduto, almeno sulla storia. E tutt’ora mi pare riuscendo anche efficacemente - grazie a tante fondazioni e a tanti sforzi individuali - a fornire una ricostruzione diversa dalla vulgata che vedeva Di Pietro come l’eroe salvifico, il magistrato applaudito.
Ne è passata di acqua sotto i ponti. Penso a un protagonista assoluto di quella stagione come il procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, che a un certo punto sentì il dovere di dire: “Dobbiamo chiedere scusa agli italiani. Non vale la pena di buttare il mondo precedente - cioè la Prima repubblica - per cadere in quello attuale cioè la Seconda». Il che, detto dall’inflessibile capo di Mani pulite, fa un certo effetto».
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