La storia: "La strage mentre ero sott’acqua. Avevo 16 anni"

Bruno Gattesco di Mortegliano testimone il 18 agosto 1946 dell’attentato a Vergarolla

Una calda domenica d'agosto, il sole cocente e l'acqua cristallina, decine di bagnanti sulla spiaggia a godersi una serena giornata di mare. Poi, all'improvviso, lo scoppio. Un tremendo boato e una gigantesca nuvola di fumo cupo che, in pochi secondi, inghiottì il cielo di Pola.

A poche centinaia di metri dalla pineta di Vergarolla, in quel terribile e dimenticato 18 agosto 1946 - giorno in cui scoppiarono numerosi ordigni bellici e si consumò la strage di cui, ancora oggi, non è stato reso noto il numero di morti - c'era anche Bruno Gattesco, di Mortegliano, che all’epoca aveva 16 anni.

Appassionato di immersioni subacquee, Bruno, originario del Friuli ma che passò tutte le estati dal 1939 al 1946 nella città istriana, dopo che il padre aveva preso in gestione il bar gelateria "Gasperini", in Largo Oberdan, quel giorno aveva deciso di dedicare la giornata alla scoperta dei fondali.

«Da ragazzo mi divertivo ad andare in acqua con la mia maschera, me ne stavo diverse ore e passavo il tempo così, spesso proprio a Vergarolla - racconta -. Quel giorno, so che era primo pomeriggio, decisi di andare in un'altra spiaggia, a due, trecento metri di distanza e, mentre ero sott'acqua, sentii un forte tuono, vidi anche il fumo, ma nella completa incoscienza di un ragazzo, continuai la mia immersione».

La guerra era da poco terminata, ma l'aria che tirava a Pola non era la stessa che si respirava in altre città: occupata dalle truppe alleate, viveva comunque nella minaccia di "cadere" sotto la Jugoslavia di Tito.

«Intorno alle sette di sera tornai a casa e mio padre mi stava aspettando - prosegue Gattesco -: appena mi vide mi diede uno schiaffo, dicendomi che era andato sulla riva a cercarmi tra i morti e non mi aveva trovato. Solo allora capii la gravità di quanto era accaduto».

Seguirono giorni tesi, ancor più di quelli che avevano preceduto il tragico episodio. I vetri delle case a pezzi, come le anime dei suoi abitanti, choccati dalla perdita di famiglie, parenti e bambini. Pola diventò poi una città fantasma e sulla vicenda calò il silenzio.

«Ci furono i funerali, io non andai mai a vedere con i miei occhi quello che era successo su quella spiaggia - confessa Bruno -, ma capimmo subito che si trattò di un attentato. Quelle mine, posate dai tedeschi, erano state disattivate e sarebbero esplose solo se qualcuno avesse reinserito le spolette.

Diedero la causa agli italiani che si opponevano al regime titino, misero a tacere tutto. Capimmo che dovevamo andarcene. La strage andò nel dimenticatoio e si disse, molti anni dopo, che il responsabile era vivo e si trovava a Fasana».

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