La prima bugia sfuggita a papà, ecco il romanzo di Elena Ferrante

L’attesa è finita, “La vita bugiarda degli adulti“, il nuovo romanzo di Elena Ferrante (di cui qui anticipiamo le prime pagine), esce domani per E/O.
Elena Ferrante
Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione.
Ho amato molto mio padre, era un uomo sempre gentile. Aveva modi fini del tutto coerenti con un corpo esile al punto che gli abiti sembravano di una misura in più, cosa che ai miei occhi gli dava un’aria di inimitabile eleganza. Il suo viso era di lineamenti delicati e niente – gli occhi profondi dalle lunghe ciglia, il naso di un’ingegneria impeccabile, le labbra rigonfie – ne guastava l’armonia. Mi si rivolgeva in ogni occasione con un piglio allegro, qualunque fosse il suo umore o il mio, e non si chiudeva nello studio – studiava sempre – se non mi strappava almeno un sorriso. Gli davano gioia soprattutto i miei capelli, ma mi è difficile dire, adesso, quando cominciò a lodarmeli, forse già quando avevo due o tre anni. Di certo, durante la mia infanzia, facevamo conversazioni di questo tipo:
«Che bei capelli, che qualità, che luce, me li regali?».
«No, sono miei».
«Un po’ di generosità».
«Se vuoi te li posso prestare».
«Va benissimo, tanto non te li restituisco più».
«Hai già i tuoi».
«Quelli che ho li ho presi a te».
«Non è vero, dici le bugie».
«Controlla: erano troppo belli e te li ho rubati».
Io controllavo, ma per gioco, lo sapevo che non me li avrebbe mai rubati. E ridevo, ridevo moltissimo, mi divertivo più con lui che con mia madre. Voleva sempre qualcosa di mio, un orecchio, il naso, il mento, diceva che erano così perfetti che non poteva vivere senza. Quel tono lo adoravo, mi provava di continuo quanto gli fossi indispensabile.
Naturalmente mio padre non era così con tutti. A volte, quando qualcosa lo coinvolgeva molto, tendeva a sommare in modo agitato discorsi finissimi ed emozioni incontrollate. Altre volte invece tagliava corto e ricorreva a frasi brevi, di estrema precisione, così dense che nessuno ribatteva più. Erano due padri molto diversi da quello che amavo, e avevo cominciato a scoprire la loro esistenza intorno ai sette o otto anni, quando lo sentivo discutere con amici e conoscenti che a volte venivano a casa nostra per riunioni molto accese su problemi di cui non capivo niente. In genere me ne stavo insieme a mia madre in cucina e facevo poco caso a come litigavano pochi metri più in là. Ma a volte, poiché mia madre aveva da fare e si chiudeva anche lei nella sua stanza, io restavo sola in corridoio a giocare o a leggere, soprattutto a leggere, direi, perché mio padre leggeva moltissimo, mia madre pure, e io amavo essere come loro. Non facevo caso alle discussioni, interrompevo il gioco o la lettura solo quando all’improvviso si faceva silenzio e insorgevano quelle voci estranee di mio padre. Da quel momento dettava legge e io aspettavo che la riunione finisse per capire se era tornato a essere il solito, quello con i toni gentili e affettuosi.
La sera in cui disse quella frase aveva appena saputo che non andavo bene a scuola. Era una novità. Fin dalla prima elementare ero stata sempre brava e solo negli ultimi due mesi avevo cominciato a far male. Ma i miei genitori tenevano moltissimo alla mia buona riuscita scolastica e mia madre soprattutto, ai primi brutti voti, si era allarmata.
«Che succede?».
«Non lo so».
«Devi studiare».
«Io studio».
«E allora?».
«Certe cose me le ricordo e certe altre no».
«Studia finché non ti ricordi tutto».
Studiavo fino allo stremo, ma i risultati continuavano a essere deludenti. Quel pomeriggio, in particolare, mia madre era andata a parlare con gli insegnanti ed era tornata molto dispiaciuta. Non mi aveva rimproverata, i miei genitori non mi rimproveravano mai. Si era limitata a dire: la più scontenta è la professoressa di matematica, ma ha detto che se vuoi ce la puoi fare. Poi se n’era andata in cucina a preparare la cena e intanto era rientrato mio padre. Dalla mia stanza sentii solo che gli stava riassumendo le lagne dei professori, capii che per giustificarmi tirava in ballo i cambiamenti della prima adolescenza. Ma lui la interruppe e con una delle sue tonalità che con me non usava mai – persino una concessione al dialetto, del tutto proibito in casa nostra – si lasciò uscire di bocca ciò che sicuramente non avrebbe voluto che gli uscisse: «L’adolescenza non c’entra: sta facendo la faccia di Vittoria».
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto