Kasia Smutniak e l’Europa dei muri: «Narro il destino della povera gente»
Martedì 14 novembre l’attrice presenta a Udine, Pordenone e Gorizia il suo film d’esordio dedicato ai profughi in Polonia

UDINE. Come spiega Kasia Smutniak (a proposito, si pronuncia Kascia) «vivo in Italia, ma il mio cuore è in Polonia. Mi è venuto spontaneo cercare di capire cosa stesse accadendo nella mia Terra. C'è un muro di 200 chilometri tirato su al confine con la Bielorussia, e costato 360 milioni, per impedire il passaggio illegale dei profughi. Da quel momento il viaggio lassù è diventato una priorità per non dire un’ossessione».
“Mur”, da lei diretto e interpretato, è il titolo di un docu-film, con molto cinema dentro e col piglio del dossier, ora in circolazione sui grandi schermi italiani per un coscienzioso passaparola a proposito dei diciannove muri costruiti in Europa in quest’era confusa e sui dodici ancora in attesa dei finanziamenti Ue. «Io sono nata dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino. Vivevo in Polonia e non l’ho mai visto. Allora il mondo pensò, e si illuse, che tutti gli sbarramenti sarebbero crollati per sempre».
L’appuntamento in regione è triplo: oggi si comincerà al Kinemax di Gorizia, alle 18.30 con la regista in platea a cui seguirà la proiezione dell’opera. Kasia raggiungerà poi il Visionario di Udine, alle 20.30, per poi concludere il tour al Cinemazero di Pordenone: Smutniak incontrerà il pubblico al termine del film delle 21.
Oltre alla ragione dei sentimenti, cos’altro l’ha stimolata a mettersi dietro una macchina da presa?
«Mi interessai ai destini incerti di tantissima povera gente dall’inizio della crisi, appena caduta Kabul. I primi gruppi di fuggitivi raggiunsero i boschi della Bielorussia cercando di ottenere asilo politico in Polonia, ma furono circondati dall’esercito e dalla polizia senza aver accesso a cibo e medicine. Un luogo piuttosto insolito e soprattutto lontano dall’usuale rotta balcanica. Però così accadde. E cominciai a pensare che avrei potuto fare qualcosa utilizzando al meglio l’arte del cinematografo, per una volta, magari, dall’altra parte. Con Diego Bianchi di “Propaganda Live” girai il primo reportage imponendomi di andare avanti con i mezzi miei».
Possiamo definirlo un film d’inchiesta?
«Non essendo una reporter, “inchiesta” è improprio come termine, però il senso è raccontare ciò che non si vede. Intanto ragionai su come arrivare alla famosa zona rossa e la risposta fu spedire una richiesta come fossi una giornalista. Da qualche tempo è concesso alla stampa la visita a un tratto di barriera avvolta dal filo spinato con la guida delle guardie di confine. Con sorpresa la domanda fu accolta, fra l’altro senza ulteriori check per approfondire le nostre identità. E così io e Mariella Bombini — ho voluto che lei mi accompagnasse affinché nel film sia presente anche lo sguardo sincero di una persona non emotivamente coinvolta — abbiamo raggiunto la meta più o meno in concomitanza con i primi spari della guerra in Ucraina. Il mantra era: dobbiamo essere invisibili».
Kasia, che Polonia ha ritrovato?
«Completamente diversa rispetto a quando me ne andai vent’anni fa e sono stata travolta da un’ondata di ricordi, com’è comprensibile, al di là degli incontri con i parenti e con mio padre. Trovo sia necessario ricongiungersi con le proprie radici. Verso la fine del docufilm mi si vede mentre entro in una casa disabitata: ecco, quello era l’appartamento della mia nonna al confine con l’Ucraina ed è stato incredibile tornare a calpestare quel pavimento, una sensazione indescrivibile. Vorrei aggiungere un altro concetto, l’importanza del distacco da certe realtà crude per poterle interpretare. Chi vive dentro la verità è spesso assuefatto dalle situazioni abituali e non riesce a guardarla con obiettività».
Questa esperienza la trascinerà altrove?
«È un percorso non nuovo, in verità. Da anni cerco di dare fiducia al mio istinto primario. Sapevo che questo viaggio sarebbe stato rischioso, ma l’ho affrontato senza timore seguendo un solo credo: mostrare le umane fragilità».
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