Il teatro ai tempi dell’Inquisizione: Udine allestì un palco in Mercatonovo

Commedie e tragedie, ma anche rappresentazioni sacre in duomo. Poi nel 1671 sorse il primo edificio

Ci fu un tempo che a Udine, non a causa di un coronavuirus, ma della censura imposta dall’Inquisizione, si proibiva al pubblico di assistere a spettacoli teatrali e a rappresentazionei pubbliche, con gran rincrescimento della nobiltà e del popolino di allora.

Era il secolo XVI, che aveva visto nascere la Riforma di Lutero, e che alla metà del’500, come un coronavirus eretico, aveva incominciato ad infettare, con le sue idee, il territorio della Patria del Friuli, contrastata alla buona dal vicario patriarcale Jacopo Maracco e dal Tribunale dell’Inquisizione di Aquileia e Concordia.

I lettori più attenti osserveranno tuttavia che per avere un vero e proprio teatro in quel di Udine occorrerà aspettare fino agli anni 1671/72, quando, con unanime deliberazione comunale, fu trasformata in teatro con palcoscenico e logge per il pubblico la grande sala del Palazzo comunale di allora. In verità, commedie e tragedie, lungo tutto l’arco del XVI secolo, vernivano comunque rappresentate, su palcoscenici improvvisati.

Un teatro, sebbene un po’ particolare, c’era, e non si trattava certo di un luogo scenico qualunque, visto il genere delle rappresentazioni che vi si svolgevano: era quello del Duomo della cittadina. Accanto infatti alle rappresentazioni, per così dire, laiche, erano diffuse quelle delle sacre rappresentazioni, per le quali luogo più adatto non poteva essere che quello del Duomo.

Inquisizione permettendo, come s’è detto, perché anche sulle sacre rappresentazioni – bastava poco per derogare dall’ortodossia – vigilava l’occhio attento dell’Inquisizione. Come successe nel 1570, quando a Udine era arrivato un addetto dei Gesuiti che, preso da grande zelo, si era dato molto da fare per rappresentare, in Duomo, un dramma sacro, una genere che tanto piaceva al religioso popolo udinese.

Ma proprio quando era quasi tutto pronto per la rappresentazione, l’inquisitore di allora, il francescano fra’ Columberto d’Assisi, aveva posto sulla rappresentazione la sua longa manus, proibendo il frutto di tanta fatica. Ce l’aveva fatta, invece, il 5 agosto del 1517, la confraternita di santa Maria al Castello, mettendo in scena, e con successo di pubblico, un dramma sacro; ma l’Inquisizione, in quegli anni, non era ancora pronta ad operare in città.

Da par suo, teatro o non teatro, il Comune favoriva le rappresentazioni teatrali; ne era probabilmente l’unico mecenate, senza guardare se i promotori erano guelfi o ghibellini, ma con l’unico scopo di accrescere la cultura dei suoi cittadini, avendo un occhio di riguardo non solo per il luogo teatrale del Duomo, che del resto era proprietà della città, ma anche per i ducati disponibili nella scarsella comunale.

Così il 5 febbraio del 1589, elargiva ducati sei alla “Società del nome di Gesù” per rappresentare, naturalmente in Duomo, una Storia di Giuseppe figliuolo di Giacobbe, e l’anno seguente ne spendeva cinque, stavolta per costruire in Duomo un palcoscenico per la recita della Parabola del figliuol prodigo.

In città, naturalmente, si tenevano anche altri generi di rappresentazioni e in luoghi diversi, alle quali assisteva la crema della nobiltà cittadina, mentre al popolino gli spettacoli si davano su un popolare parco eretto in Mercatonovo. Su tutti gli spettacoli vegliava l’occhio indiscreto dell’autorità ecclesiastica attenta, come richiedeva il suo mandato, a fare in modo che fosse mantenuta la severa dignità dei costumi dell’epoca.

Ai quali costumi, peraltro, prestavano cattiva testimonianza perfino certi insospettabili rappresentanti del mondo ecclesiastico, come era successo, il 18 novembre del 1500, quando il vicario patriarcale del tempo si era visto costretto a procedere contro un certo Vincenzo, diacono del Duomo, che la domenica precedente, in Mercatonovo, alla presenza di una folla che si pigiava fino all’estremità della piazza, dove si recitava l’Eunuco di Terenzio, aveva sostenuto – forse di necessità, perché in quei tempi anche le parti femminili venivano recitate da uomini – la parte di Taide, la cortigiana, personaggio principale della commedia.

Ci andò giù pesante, nel 1570, anche il vicario patriarcale Jacopo Maracco, che era anche “commissarius subdelegatus” dell’Inquisizione, che non soltanto negò la licenza di rappresentare una commedia ritenuta scandalosa, ma comandò che ne fossero bruciate tutte le copie!

Il generoso Comune, intanto, non solo contribuiva finanziariamente, ma interveniva anche concedendo a comici e dilettanti l’utilizzo della “Sala Nuova” del palazzo, purché offrissero la garanzia di risarcire i danni eventualmente provocati; non solo metteva a disposizione quella sala “ad gaudium civium et popolarium” , ma talvolta forniva anche il legname per il palco e pagava un falegname per il suo allestimento, come era avvenuto nel 1520 a favore di un certo Bernardino di Rho, che voleva istruire alcuni giovani nell’arte della recitazione.

Largo dunque ai giovani. Nel febbraio del 1563 e in quello del 1575 furono elargiti ad “alcuni giovani di buona indole e di buone speranze” , per una rappresentazione “in aula castri” , dove fu allestito tutto l’apparato necessario, 50 ducati. Ancora, nel dicembre del 1589 una compagnia di giovani chiedeva un sussidio per poter rappresentare l’Ermete, una tragedia scritta dal cancelliere Vincenzo Giusti, che l’aveva regalata a loro. Per poter essere messa in scena, abbisognavano 500 ducati, ma in un primo momento il Consiglio Comunale non riuscì a mettersi d’accordo. Ma poco tempo dopo ci ripensò, e il 2 gennaio dell’anno successivo deliberò di concedere a quei giovani di buona indole un contributo di 300 ducati.

Che diamine! Si trattava di onorare un autore cittadino; un autore che il Sansovino, mica uno qualunque, aveva definito “tragico virtuosissimo” , che aveva già composto altre due commedie, l’Alcmeone e l’Irene, e che aveva pronta una favola pastorale, l’Elpina, che verrà rappresentata nel 1595, in occasione delle nozze del figlio del nobile Antonio Marchesi, al quale il Comune aveva concesso, “alacri libentique animo” l’utilizzazione dell’intera armatura e la decorazione scenica.

Due anni più tardi, quel Consiglio così liberale deliberava, a pieni voti, di affidare in comodato tutto quel apparato scenico ad “actoribus peregrinis” che erano improvvisamente arrivati a Udine, e che avevano chiesto di poter tenere un corso di rappresentazioni teatrali a pagamento, pregando che fosse loro concessa “scenam publicam quae est in armamentorio magnificae communitatis nostrae” .

Non mancavano, allora, i commedianti, ma neppure i commediografi cittadini che scrivevano di teatro. Nella sola metà del’500, oltre al già ricordato Vincenzo Giusti, troviamo Enrico Altan, Claudio Cornelio Frangipane e Scipione di Manzano, che componevano tragedie, commedie, drammi e pastorali, e che «Dio sa con quanti applausi siano state accolte, ma che ora giacciono (meritatamente) seppellite sotto il profondo e meritato oblio di tante generazioni», scriveva, in una memoria del 1929, intitolata Vecchi teatri udinesi, lo storico Antonio Battistella, anche lui cittadino nato udinese, ma morto in quel di Firenze.


 

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