Il fantasma di Gladio è sfuggito dal passato e fa ancora paura

Immaginiamo un esercito formato da un gruppo di uomini scelti, addestrati in gran segreto per organizzare attentati ai treni e nelle piazze, abbandonato di punto in bianco al proprio destino. Scaricato dallo Stato che li aveva reclutati e lasciato alla mercé della magistratura, per giunta senza percepire più neppure lo stipendio. Ecco, quella è gente con una voglia matta di far valere le proprie ragioni. Alla maniera sua.
«Due più due fa quattro: hanno sciolto Gladio ed è comparsa la Falange Armata. Sono sempre loro: però, questa volta, molto incazzati».
Maurizio Torrealta, giornalista e scrittore di lungo corso (ha lavorato a Samarcanda, Tg3 e Rainews24, fondato una scuola di giornalismo e firmato diversi libri), ne parla in “Il filo dei giorni. 1991-1995: la resa dei conti” (2017, Imprimatur). Non un libro-inchiesta, come l’esperto cronista ci aveva abituati da “La trattativa” a “Processo allo Stato”, bensì un romanzo, genere non solo di più facile lettura, ma funzionale anche alla narrazione di fatti sui quali il tribunale di Roma ha posto una croce tombale.
Perché rispolverare un pezzo di storia italiana così oscuro e controverso?
«Il libro nasce dai 24 faldoni dell’inchiesta sulla Falange Armata che la magistratura ha tenuto aperta per dieci anni e che poi, per altri dieci, è rimasta sepolta negli archivi della Procura: raccontava di una guerra dentro le istituzioni che nessun processo giudiziario avrebbe mai potuto risolvere, ma che ci consegna ugualmente una lezione preziosa».
Quale?
«Questa storia ci fa capire la debolezza strutturale della nostra indipendenza. Esisteva una struttura più forte delle istituzioni democratiche, cementata sul dialogo tra forze eversive e uomini dello Stato. Gladio nacque nel 1952 e fu formalizzata nel ’56 da un accordo Sifar, il nostro servizio segreto, e Cia, per bloccare una possibile invasione sovietica. In realtà, questo esercito clandestino è stato utilizzato per preparare progetti di golpe e attentati che aumentassero la tensione sociale e spaventassero l’elettorato che votava Pci».
Cosa avvenne negli anni Novanta, quando il fantomatico nemico venne meno insieme al dissolvimento dell’Unione sovietica?
«Per Gladio, la cellula italiana della rete “stay behind”, fu un trauma. In Italia, Andreotti ebbe il coraggio di svelarne l’esistenza, ma raccontando anche un mare di sciocchezze: disse che era stato chiuso già nel 1972 e ne parlò come di una struttura della Nato. Entrambe falsità. Subito dopo, venne smobilitata anche la settima divisione del Sismi, di cui facevano parte gli agenti con licenza di uccidere. Furono fatti 600 nomi, ma si trattava di coloro che, in caso d’invasione, avrebbero dato un appoggio logistico, e non dei 240 inabissati, gli uomini preparati alla guerra. Lista già emersa durante il sequestro Moro».
Già, il sequestro Moro...
«Le Br gli chiesero la lista dei membri di Gladio e lui, attraverso persone che possedevano i documenti, gliela fece avere. Firmando così la sua condanna a morte. Perchè quei nomi non dovevano uscire. L’elenco è stato prodotto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani. Un elenco simile, ma aggiornato al 1992, si trova anche nei 24 faldoni sulla Falange Armata. Mi sono ben guardato dal pubblicarli: se l’inchiesta della Procura non ha trovato ipotesi di reato, diffondere nomi collegandoli a operazioni terroristiche senza prove rischierebbe di essere considerato operazione diffamatoria».
Nel romanzo, in realtà, riesce a parlarne lo stesso attraverso l’ambasciatore Dell’Arti. Chi era e cosa fece?
«Un nome di fantasia dietro il quale qualcuno pretende di aver intravisto l’ex capo del Cesis, Francesco Paolo Fulci. Ma smentisco che sia stato ispirato da lui. Nella realtà, Fulci fu incaricato dal presidente del Consiglio, Andreotti, di mettere ordine nel mondo dei servizi. Un incarico rischiosissimo e durante il quale emerse lo scandalo dei fondi neri del Sismi e si scoprì chi, tra giornalisti, magistratati e ministri, era stato comprato dai servizi, che non erano deviati, ma che, con la Cia, si erano trasformati in una struttura inattacabile. Dopo l’attentato in via dei Georgofili, nel maggio 1993, Fulci chiese un incontro al comandante dei carabinieri per consegnargli una busta: dentro, c’erano 16 nomi di membri della Settima divisione del Sismi, che era stata sciolta nel 1990. “Se mi succede qualcosa – gli disse –, indagate le persone segnate in questa busta”».
E fu aperta?
«Certo che sì. E si scoprì che quelle persone continuavano a incontrarsi e che intrattenevano rapporti anche con la destra eversiva e i fabbricanti d’armi. Fare rumore non avrebbe giovato a nessuno e così si limitarono a far arrivare loro il messaggio che sapevano chi erano e cosa facevano. Tenuta in stand by per vent’anni, l’inchiesta si è chiusa nel silenzio generale. Basti pensare che l’ultimo attentato sarebbe dovuto avvenire contro i carabineri a cavallo, in via dei Gladiatori, allo stadio Olimpico. E invece non avvenne».
La mafia come braccio operativo della guerra fredda. Che relazione ci fu con il terrorismo?
«La mafia servì a fare soldi rapidi e a garantire il controllo di una zona strategica come la Sicilia. È stata utilizzata finchè faceva comodo. Ma chi si è arricchita di più è stata la Cia: un bubbone che continua a gestire gli interessi più importanti in modo illecito. La guerra fredda, in Italia, è stata finanziata dal traffico di eroina delle famiglie italo-americane portato dalla Cia. Nella conta delle vittime non ci sono solo i circa 200 innocenti uccisi dagli attentati terroristici, ma anche i ben più numerosi giovani morti per overdose».
Tutto finito?
«Niente affatto. Se una struttura ha funzionato è difficile che venga smantellata. Il pericolo di ritrovarsi in situazioni analoghe è dietro l’angolo. Per evitarlo, bisogna capire quali siano le forze in campo, tenendo d’occhio le strutture militari che minacciano l’autonomia nazionale. E bisogna anche capire cosa si vuole fare in Europa: chi comanderà e chi agirà nel nome di chi».
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