«Il domani? È una proiezione immaginaria del presente»

TULLIO AVOLEDO. A costo di deludere qualcuno, credo che la parola definitiva sulla capacità degli scrittori di prevedere il futuro l’abbia pronunciata William Gibson: «Nessuno scrive davvero del futuro. Tutto quello che ci rimane quando fingiamo di scrivere del futuro è il momento in cui stiamo scrivendo. Ecco perché ogni futuro immaginato diventa obsoleto come un gelato che si scioglie mentre uscite dalla gelateria all'angolo».
Il futuro, insomma, non esiste: è solo una proiezione immaginaria del presente.
William Gibson è lo scrittore di fantascienza che nel 1984, nel suo romanzo d’esordio Neuromante, inventò il cyberspazio di internet. In esilio a Vancouver (dove si era rifugiato nel 1967 per sfuggire al servizio militare in Vietnam), pestando sui tasti di una macchina da scrivere Olivetti, Gibson inventò dal nulla un fantastico mondo del futuro in cui la rete internet costituisce un’entità planetaria dotata di coscienza e in cui un’affascinante aidoru (dalla pronuncia giapponese della parola idol) è la cantante più famosa del pianeta, per quanto sia solo un’entità virtuale, voce e ologramma generati dai computer. Cose che in effetti già esistono. Ma ciò non vuol dire che Gibson abbia visto il futuro. Nell’oggi da lui immaginato non esistono, per esempio, i telefoni cellulari, e c’è ancora l’Unione Sovietica.
Il futuro immaginato da Gibson nel 1984 non si è mai avverato. É pura fantasia. Ho scelto come esempio Gibson, un autore che amo, ma avrei potuto sceglierne tanti altri che hanno azzeccato un sacco di previsioni sul futuro. L’inglese John Brunner, ad esempio, ha immaginato mondi futuri molto simili al nostro, partendo da paure degli anni ’60 come i conflitti razziali e l’inquinamento. Il gregge alza la testa, Tutti a Zanzibar e L’orbita spezzata costituiscono altrettanti esempi di capacità di immaginare il futuro. Ma quel futuro non è il nostro presente. Ci assomiglia, ma come può assomigliarci un secondo cugino.
Il problema, come disse Abramo Lincoln, è che «il futuro arriva un giorno alla volta». Tante variabili, anche minime, possono deviare il percorso della storia, o del progresso. La presidenza Trump, ad esempio, è un elemento simile all’apparizione del “Mule” che scompaginava le previsioni della psicostoria, la scienza che avrebbe dovuto prevedere il futuro sulla base del comportamento statistico delle masse inventata dal grande Isaac Asimov nel suo “Ciclo della Fondazione”.
Vi consiglio di fare un esercizio. Anzi, due. Io li faccio, e sono divertenti.
A dicembre, tirate fuori gli oroscopi pubblicati alla fine dell’anno precedente, e verificate quali previsioni si sono verificate. Vedrete che il risultato è molto vicino allo zero.
Poi fate un esercizio un po’ più complicato. Comprate un quotidiano del 2017 e cercate di leggerlo come se viveste nel passato. Anche solo nel 2000. Scoprirete che il mondo del 2017 è un posto assurdo, fantascientifico. Il fatto è che ci siamo arrivati, come diceva il povero Lincoln, giorno per giorno. Ma se vi ponete dalla prospettiva di un uomo del passato, scoprirete quanto bizzarro e assolutamente imprevedibile è il mondo in cui viviamo.
Rispetto ai compilatori di oroscopi, gli scrittori azzeccano più spesso le loro previsioni. Pensiamo solo a Jules Verne: ma le sue previsioni si basavano su una conoscenza onnivora del suo presente. Vivendo immersi in un bagno d’informazioni costantemente aggiornate, oggi abbiamo più elementi su cui fare previsioni. Nel 2002 (il libro è lì, se volete verificare), scrivendo Lo stato dell’unione, previdi che Arnold Schwarzenegger sarebbe stato eletto governatore della California nel 2003. Il libro uscì poche settimane prima del voto, e confesso che incrociai le dita. Nello stesso romanzo, però, immaginai anche Hilary Clinton presidente degli Usa. Ho sbagliato di poche migliaia di voti, in realtà. Quello che ho invece indovinato in pieno è la fine ingloriosa del futuro immaginato nel 2000: un mondo in cui la web economy avrebbe reso tutti più ricchi, più felici, più “smart”. Poi nel 2008 la bolla è esplosa. Ma non occorreva avere la sfera di cristallo: bastava informarsi, e guardare le cose con gli occhi pratici di mio nonno, o di mio padre, per capire che era solo un gioco di prestigio su scala planetaria.
«La prima difficoltà di pensare il futuro è pensare il presente», ha scritto il filosofo Edgar Morin, premio Nonino nel 2014. E il sociologo Michel Serres, che ha ricevuto quel premio due anni dopo, ha osservato che un ragazzo di oggi, un cosiddetto “nativo digitale”, ha a sua disposizione strumenti di conoscenza che nessun sovrano del passato ha mai potuto nemmeno sognare. Ne consegue che quel ragazzo, se si decidesse a usarli, ha anche molti più mezzi per capire il presente e prevedere il futuro.
E pensare il futuro è necessario.
Soprattutto perché non abbiamo altro posto dove andare.
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