Il bambino squadrista di confine, un libro racconta la sua storia
È il nuovo romanzo di Marco Balzano, protagonista una giovane camicia nera. Il giovane si macchia di brutali violenze nei confronti di sloveni e croati

«Di quella che chiamano Storia non c’è da menar vanto / fatta com’è di quanto c’è in noi di criminale». L’esergo – due versi di Wystan H. Auden - mette da subito le cose in chiaro: “Bambino” (Einaudi, pagg. 224, euro 19, da oggi in libreria), ultimo romanzo di Marco Balzano, autore attento alle tematiche di frontiera, prende in esame la prima metà del ’900 triestino ponendone al centro il problema del male che ci portiamo dentro, del peccato originale, forse.
L’innocenza è meno di un’ombra – avverte l’autore - non appartiene ai fiori, ai sassi, neanche a Dio, che ha creato l’essere più malvagio. Non fa sconti a nessuno il romanzo, la cui durezza probabilmente spiacerà a molti.
Racconta l’esistenza, fittizia quanto plausibile, di Mattia Montani, camicia nera di Trieste, e restituisce sine ira ac studio, ma con una pietas partecipe che rimanda al miglior Greene, una pagina di storia ancora divisiva, perché soverchiata dalle memorie contrapposte, dai miti, dalle strumentalizzazioni. Venuto a sapere che la sua madre biologica non è la donna che lo ha cresciuto, e vistasi negata dal padre ogni informazione in merito, il giovane si lancia in una caccia ossessiva quanto vana, che a momenti sconfina nella psicosi.
Qui, forse inconsciamente, l’autore rappresenta una buona metafora della cerche tutta triestina di un’appartenenza sicura nella quale riconoscersi e rassicurarsi (e viene in qualche modo in mente anche Curra, il pulcino del racconto di Italo Svevo).
Mattia attraversa quella che è stata definita la “stagione delle fiamme” illudendosi di trovare nel cameratismo fascista e nel piccolo potere personale una risposta al suo bisogno di amore, o almeno un succedaneo che lo lenisca.
Diventa così una delle camicie nere più spietate della città, “Bambino” (il soprannome gliel’hanno affibbiato per il viso imberbe), e alla guida di gruppi squadristi, si abbandona a violenze contro i villaggi sloveni e croati.
Sono luoghi da cui, fantastica, potrebbe essere originaria la madre; ne ha trovato la foto in un bauletto del padre, ha inventato per lei anche un nome, Cecilija, e spia nei volti delle donne carsoline possibili rassomiglianze con le sue fattezze. Cercando di mascherare solitudine e vulnerabilità con un’immagine di virilità e di forza, Mattia scade ancora.
La ricerca di un’affermazione personale e di un ruolo lo porta a mettere in atto ruberie individuali camuffate da spedizioni punitive, e lo introduce nel mondo della ricettazione e della borsa nera Poi l’orizzonte internazionale si incendia.
Sempre alla ricerca di un senso, Mattia sceglie di partire per la Grecia, dove vive una breve e travagliata epopea (anche qui, il fango e le sofferenze hanno un’inconsapevole eco prettamente triestina, quella delle memorie di guerra di Manlio Cecovini). Quando torna è sempre più un’anima allo sbando. Sprofonda, facendo e subendo tutto il male che percorre e imbeve queste terre. «Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del piú forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata», riconoscerà in una lettera.
«No, non lo dico per giustificarmi, nessuno mi ha costretto. In contro a chi faceva del male ci sono andato sulle mie gambe, mi sembrava di mettermi al sicuro.
Non ho mai avuto degli ideali... chissà come succede che alcuni li hanno e altri no». “Bambino”, che sarà presentato a Trieste, al Miela, a cura del Circolo della Stampa, la mattina di sabato 9 novembre, affronta, da una prospettiva esterna, eventi dolorosi e contraddittori, rimossi e poi divenuti simbolo riassuntivo e fuorviante. Un romanzo – non un libro di storia - che prima o poi doveva essere scritto. Il finale, dati alcuni elementi da thriller-noir, non è svelabile. Ma restano da dire due cose.
La prima riguarda la scrittura, nitida e precisa: cesellata senza essere artefatta. Balzano tratteggia una Trieste plumbea, di un cupo bianco e nero. Però all’improvviso la rischiara con paesaggi luminosi, forse allusivi a qualcosa che sarebbe potuto essere e non è stato, per Mattia come per la città. L’ultima notazione riguarda il richiamo ai conflitti attuali. Quelli nel Mediterraneo e nell’Europa orientale, luoghi rispetto ai quali cui Trieste è, storicamente, un sensibilissimo sismografo.
L’autore non lo ha cercato: il libro è stato pensato e steso quando nulla si era ancora scatenato. Pure, leggendolo, quell’epoca in cui “ciascuno segna i propri confini con il sangue dell’altro” rimanda, inevitabilmente, al presente. A una storia che non è finita e della quale, per tornare ad Auden, non c’è da menar vanto.
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