Giannini: «I film italiani? Meglio quelli vecchi»

PORDENONE. Gli sta a cuore la pasta al pesto. La cita e la ricita, Giancarlo Giannini, la sua pasta. «Bisogna farli bene, gli spaghetti, se te li chiedono».
Sette pagine del suo libro, il primo vergato di pugno - che non proprio spontaneamente ha scritto - profumano di Liguria. «Fu un’intervista americana a stimolarmi l’argomento cibo. Mi chiesero la ricetta. Risposi loro: “Ci vuole un attimo, ce l'abbiamo? Almeno una mezz'ora". Me la regalarono».
L’inedito ruolo, lo scrittore. Cogliamo, forse sbagliando, per carità, non proprio un grande amore verso il suo prodotto confezionato Longanesi, come se lo scrivere fosse per lui tutt'altro che un’urgenza. Intanto il titolo: Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi).
«Non è farina del sacco mio - va a precisare l'attore - però mi piace. Rilascia il significato pascoliano di fanciullezza, che significa piacevolezza, l’aspettare il pranzo e intanto giocherellare con la forchetta trasformandola in un treno. È una festa, momenti e piaceri gioiosi, il pensare senza sovrastrutture, liberi. In fondo è anche questa l’essenza del mestiere di recitare. Alimentare lo straordinario. Diventare più bambini dei bambini».
È stato il cinematografo a incantare l’aplomb dell’uomo con la voce più profonda dell’universo mondo, sebbene l’abbrivio sia teatrale, come accadeva nell’era della serietà. Senza aver poggiato i piedi su un palcoscenico il set non te lo facevano manco vedere. Regole ormai decadute a favore della legge del caos. Ovvero: a teatro ci vai, ma dopo aver raccolto molto share in televisione. Altrimenti, ciccia.
«Ero piuttosto timido da giovanotto, ammette Giannini, quindi inadatto a mostrarmi al pubblico. Evito il militare e, casualmente, mi metto in fila per entrare all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico di Roma. Una scelta così, senza convinzione; a volte non sai perché le fai. Insomma, ci siamo presentati in novecento e mi ritrovo sbigottito nel gruppo dei promossi. E sarà poi l’allora fidanzato di Carla Fracci a consegnarmi il ruolo di Puck, lo spirito ingannatore del scespiriano Sogno di una notte di mezza estate. Ricordo che la gente rideva parecchio, mah, forse vado bene, pensai».
Adesso, nello stesso sacro luogo, Giannini insegna. «Diciamocelo con franchezza, inutile illudersi di entrare che ne so Mario e di uscire Marlon Brando. Insisto affinché gli allievi imparino la gioia della vita, detesto i metodi violenti, meglio quelli brechtiani, il resto scaturisce spontaneamente. Ricevo più io da loro, sappiatelo».
Centosettanta pellicole una sull’altra. Sono un’immensità. Tredici anni di sudore teatrale e un musicarello, di quelli tipici dei Sessanta - Rita la zanzara -, lo accoglie con la complicità della Lina, la Wertmüller. «Non pensare al cinema, mi dicevano certi registi importanti, sei fatto su misura per la prosa. Per fortuna non ho badato troppo al consiglio».
Dice, Giannini, di salvarne un quattro/cinque di quei centosettanta. Entriamo di fioretto. Approfittiamo della zona filmica per capire la temperatura del prodotto italiano dell’ultimo ventennio, toh. «Una situazione drammatica, non c’è gara con quelli della metà del secolo scorso. Puoi rivederli cento volte e non t’annoi mai».
Un ricordo di Mariangela, «donna e artista irripetibile» e uno alla mamma, che tra pochi giorni sarà centenaria. Giancarlo l’inventore - è un genio anche in questo, ma pochi lo sanno - ha un sigaretta a portata di mano accanto a Sono ancora un bambino.
Torniamo laddove eravamo partiti. Approfondiamo. «In realtà è stata una mia cara amica a spronarmi al flashback esistenziale, qualche rifiuto precedente significava partita chiusa fra me e i ricordi». Vien dal cuore: e qualche soddisfazione se l’è tolta? Non pare. «Se posso evito di parlare di me stesso, non amo il passato, credo di più nel futuro, e adoro i silenzi. Fate voi».
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