Duecentovent’anni fa la resa ma la Serenissima è per sempre

Nel Cinquecento era un impero e il centro di mediazione fra Oriente e Occidente La lunga decadenza, la fuga del doge Manin, lo sbarco dei francesi in laguna, la fine
Nel maggio 1797 un’Europa in guerra accolse la notizia che la Serenissima era caduta. Il Maggior Consiglio aveva deciso di accettare l’ultimatum di Napoleone e, in un’aula mezza vuota, il 12 maggio, aveva votato lo scioglimento della millenaria repubblica.

Uno spaventato doge Ludovico Manin, di famiglia friulana, aveva lasciato il Palazzo Ducale e i francesi erano sbarcati in laguna.

Duecento e venti anni dopo, il crollo della Repubblica di San Marco non cessa di far sentire rumore. Sarà per quell’atmosfera inestinguibile di grandezza che Venezia emana e che affascina gli ormai 30 milioni di turisti che la visitano ogni anno.

Sarà perché Napoleone doveva insegnare un metodo che avrebbe fatto scuola. Fatto sta che la pratica non è ancora chiusa.

Nata in continuità con il Comune medievale, nel Cinquecento la Repubblica si annoverava tra le principali potenze europee. Il suo dominio andava dalle porte di Milano fino alle lontane isole dell’Egeo, includendo Cipro e Creta, le coste della Dalmazia e l’Istria. Un vero e proprio impero, o commonwealth come si usa dire adesso: una rete di scali per commerci fiorenti tra l’Asia e l’Europa.

Mentre sul continente si affermava lo stato monarchico sempre più centralizzato, la repubblica manteneva uno stato che costava poco e concedeva ampie autonomie. Nella Patria del Friuli, sottomessa nel 1420, governava un Luogotenente, ma le redini del paese erano nelle mani di una faziosa e rissosa nobiltà. Nessuna grande differenza, nella vita quotidiana della gente comune, rispetto al resto dell’Europa occidentale.

Nel Sei e Settecento, mentre si imponevano nuove esperienze e idee di politica, il governo di mille nobili (ex) mercanti cominciò ad apparire qualcosa a metà tra il fossile di una repubblica dell’età antica e il relitto di una città-stato medievale. La potenza economica di Venezia si era consumata nei secoli e da centro di mediazione tra Oriente e Occidente la città si era ridotta a porto principale dell’Alto Adriatico. Prima che, con l’assegnazione all’imperiale Trieste dello status di portofranco nel 1719, anche questo ruolo fosse messo in discussione.

Nel secondo Settecento la statura internazionale di Venezia era ormai irrisoria, così come la sua capacità difensiva. Non poté esistere nulla di più moderno e dirompente di quanto essa si trovò di fronte nel 1796: l’esercito basato sulla leva obbligatoria di una nuova, vera nazione che era passata attraverso una rivoluzione, aveva ucciso il re, fatto e disfatto una dittatura. Un esercito, oltretutto, guidato da un generale di ventisette anni che si permetteva di dare ordini a una congrega di vecchi che ai loro figli, a quella età, non facevano quasi aprir bocca.

Possibilità di sopravvivenza: zero, come si è visto. Poi venne Campoformido e un ventennio di sofferenze, fame e malattie. Passata la tempesta napoleonica, tutti gli antichi regimi vennero restaurati e le legittime dinastie rimesse sui loro troni. Al Congresso di Vienna nessuno si ricordò della Repubblica e del suo diritto di tornare a vivere. Se non il suo antico nemico, il Sultano ottomano: l’unico che alzò la voce, naturalmente inascoltato, a favore di quel Leone di San Marco che aveva combattuto per secoli. Ironie della sorte.

Negli ultimi anni il fantasma della Repubblica di Venezia è uscito dalle pagine degli storici e dei romanzieri, dove gode di ottima salute, per popolare le cronache giudiziarie e anche politiche. I discendenti dei sudditi di Terraferma che per secoli si sono lagnati della Dominante ne hanno retrospettivamente scoperto i vantaggi (soprattutto la mite fiscalità). Qualcuno addirittura invoca l’illegittimità, per assenza di numero legale, della delibera con la quale il Maggior Consiglio abdicò il 12 maggio 1797. Si consiglia rivolgersi al Tar della Storia.

(* Direttore del Dipartimento Studi umanistici e del Patrimonio culturale all’università di Udine)

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