Gerolimetto, il viandante sulla Amerigo Vespucci per un foto-libro gioiello
L’incontro giovedì 26 giugno al centro congressi Kursaal di Riviera: «Mio papà s’innamorò di Lignano, al tempo avevo 10 anni”

Molteplici personalità di viaggiatori coriacei coabitano un corpo solo. Senza gran giri di parole, referenze e piaggeria, noi quest’uomo lo abbiamo individuato nel giramondo Cesare Gerolimetto, ora ottantaseienne, di Bassano del Grappa, instancabile giovane viandante con ben precise mete di studio fino a quando il mondo divenne interamente suo e cominciò pure a fotografarlo.
Il Premio Hemingway lo raggiungerà in questi giorni di festival a Lignano Sabbiadoro (26-28 giugno) per un progetto sull’Amerigo Vespucci, un foto libro («in realtà è una rivista edita da Antiga», precisa l’autore) che ha folgorato Italo Zannier signore e padrone della sezione fotografica del celebre riconoscimento dedicato allo scrittore dell’Illinois al suo 41° giro di sguardi alle eccellenze del nostro tempo. Alberto Garlini è il presidente di giuria. L’incontro con Gerolimetto è programmato per giovedì 26 giugno, alle 21, al centro congressi Kursaal di Riviera.
Lei tornerà ad affacciarsi sul mare friulano 75 anni dopo. Ci racconta questa storia?
«Mio papà s’innamorò di Lignano, io al tempo avevo una decina d’anni, e così quando decise di acquistare casa mi portò con lui. Poi accadde che mio fratello, in un’altra visita lignanese, si sentì male e fu salvato da una peritonite dopo una perigliosa corsa verso l’ospedale. A quel punto papà cambiò meta e l’avventura sulla spiaggia del Nord Est non ebbe inizio».
Le piace Hemingway?
«“Per chi suona la campana” rappresenta uno dei libri iconici della mia libreria. Volendo c’è un’altra casualità. A Bassano vantiamo un museo a lui dedicato allestito a Villa Ca’ Erizzo. Nel 1918 la dimora signorile del ’400 fu la residenza della Sezione Uno delle ambulanze della Croce Rossa Americana. E tra i volontari autisti c’era proprio Ernest Hemingway. Nonostante sia rimasto sorpreso, nonché felicissimo s’intenda, per essere stato scelto fra molti illustri colleghi, il passato mi consegnò dei segnali sebbene d’impossibile interpretazione».
Navigare sull’Amerigo Vespucci è privilegio per pochi, suppongo.
«Devo ammettere, con orgoglio, che sono fra quei pochi. Con la complicità di un giornalista polacco nel 1984 raggiunsi Costanza sul Mar Nero per imbarcarmi sul veliero con la prua che puntava a Istanbul e ad altri porti del Mediterraneo. Dopo una settimana di navigazione sbarcai a Taranto. L’occasione si ripresentò una quindicina d’anni dopo a Brest e veleggiammo verso i Mari del Nord. Mi assegnarono con sorpresa la lussuosa cabina dell’ammiraglio. I migliori scatti di questa duplice inimmaginabile impresa, in compagnia dei 470 membri dell’equipaggio, come dicevo, sono sistemati in bell’ordine nella rivista “La nave Amerigo Vespucci” I Quaderni 001/2024».
Sarà emozionato? Perdoni la domanda idiota.
«Io speriamo che me la cavo. Come il titolo del famoso libro».
Il viaggio è una costante della sua vita, dico bene?
«Benissimo. I miei commerciavano in pellame e il pezzo forte della ditta erano le esportazioni, più o meno il 90 per cento, e così papà e mamma mi spedirono come un pacco postale a imparare le lingue prima in Francia, quindi in Germania e, infine, a Oxford in Inghilterra».
Così rimarrà travolto dal desiderio dell’andare.
«Eccome no. A bordo di una Fiat Seicento raggiunsi Bagdad e tornai pure a casa. I mezzi di comunicazione erano inesistenti e il rischio era alto. Ma l’incoscienza e la frenesia dominavano. Restai un po’ fermo con la promessa che sarei ricaduto in un’altra follia. E così avvenne: nel 1968 guidando una Fiat 124 arrivai in Nepal. Per un totale di ventimila chilometri. La passione per la fotografia mi stregò molto dopo. Nel 1971 scesi in Africa per un giretto su una jeep: quella volta i chilometri furono quaranta mila. Devo dire che senza l’appoggio della mia famiglia mai avrei potuto affrontare tutto questo».
Ma c’è anche un “suo personalissimo” Guinness dei Primati conquistato per il giro del mondo in camion: 180 mila chilometri.
«Impiegai quattro anni solamente per raccogliere informazioni. E cominciai a colpire ai fianchi Daniele Pellegrini, noto fotografo di “Airone”, che poi mi fece impugnare una macchina fotografica. Quindi tormentai la Fiat per avere un camion quattro ruote motrici. Finalmente io e Daniele riuscimmo a salirci sopra su quel bestione e ci servirono due anni e mezzo per compiere il giro della Terra. Otto mesi dopo io e Daniele stavamo sul grande libro delle imprese. Nessuno prima di noi s’era avventurato per il globo con un bisonte della strada».
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