Viaggio tra la gente: "Dimenticati da anni: non è stato fatto niente per la nostra montagna"

OVARO. Il gesto con la mano indica i boschi tutt’attorno a Ovaro e poi si allarga alla Carnia intera. «Nessuno ha fatto niente per difenderli da anni, sono stati abbandonati e noi con loro». La montagna ce l’ha nel cuore Sandro Stefani, figlio dell’alluvione del ’66.
Da quando da bambino lavorava nella stalla con il nonno. L’ha vissuta e continua a farlo. Sfalciando i prati, dove è possibile. «Perché è necessario – dice – e invece adesso non si può andare a fare legna, non si possono pulire i corsi dei ruscelli. Tutto è bloccato dalla burocrazia, da norme che nulla hanno a che fare con le esigenze della montagna».
Non ha bisogno di affacciarsi dalle finestre del bar Moderno per parlare di quei boschi che tanto ama. Li conosce bene, da sempre. Intanto, dall’altra parte della strada, in municipio, è in corso il vertice con il ministro Danilo Toninelli. «Non servono più promesse ma fatti.
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Perché la montagna è stata abbandonata negli anni e non per colpa dei suoi abitanti» commenta mentre dietro al banco Martina sforna toast e prepara caffè. «Abbiamo lavorato con le candele quando tutto il paese è rimasto senza luce – spiega – e abbiamo deciso di aprire comunque per dare un servizio alla comunità. Non ci siamo fermati, certo abbiamo dovuto buttare via gran parte di ciò che c’era nel congelatore ma siamo andati avanti».
E così ha fatto Ovaro e così ha fatto la Carnia. Non ha mollato. Nonostante i ponti e le strade crollate, nonostante il fango, i fiumi esondati, i tetti scoperchiati, i boschi distrutti, la paura. «Eppure non basta ricostruire un ponte. Si devono mettere in pratica delle politiche per difendere e valorizzare la montagna ascoltando chi ci vive e che ne conosce le esigenze, non decidendo tutto a tavolino».
Daniela Casanova, 30 anni, e la mamma Silvana parlano della Carnia e si commuovono. Dei giorni scorsi non dimenticano il buio e quel vento così forte «che temevamo potesse scoperchiare la casa da un momento all’altro». «Non riuscivamo a metterci in contatto con altri nostri parenti – racconta Silvana –, eravamo isolati, i telefoni non andavano, mio figlio è rimasto senza luce per tre giorni con un bambino di un mese. Alle cinque di pomeriggi era tutto buio e le ore non passavano più. Mia figlia appena il tempo si è calmata è andata in albergo a Udine almeno per potersi fare una doccia calda».
La Carnia combatte per ritornare alla normalità. Quella di Maria Facchin, 83 anni e del marito Guido, 89,di Udine, di poter tornare nella vecchia casa di famiglia, nella frazione di Mione, dopo aver riparato il tetto da dove l’acqua continua a filtrare, quella di un Comune, Paluzza, e di un sindaco, Massimo Mentil, che ieri ha incontrato il ministro Toninelli.
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Si è parlato di prevenzione e delle criticità da risolvere. In primis la statale 52 dove, dopo la frana, si è riusciti nell’arco di 16 ore a aprire una bretella provvisoria per ripristinare l’accesso alle frazioni di Cleulis e Timau. Ci sono poi i ponti e il depuratore da sistemare, rendere di nuovo accessibile il transito alle macchine negli abitati dove adesso si accede solo attraverso un ponte pedonale. «Devo ringraziare la Protezione civile – dichiara il sindaco – l’Anas, i cittadini, gli amministratori perché da soli non si fa nulla , abbiamo dimostrato uno spirito di squadra, che nel disagio ci consente di poter tornare alla normalità e di guardare il futuro con ottimismo».
Non ci si ferma, ancora. C’è da sistemare, ricostruire, rimettersi in piedi. Per una settimana Francesco Gagliolo, 35 anni, operaio della cartiera di Ovaro, è ritornato a casa solo per riposare un po’. Per poi tornare a indossare la divisa della Protezione civile e di nuovo tornare sotto la pioggia battente, per aiutare, sgombrare le strade. Dentro al bar si continua a parlare non dei disagi ma della montagna.
«Sono stati piantati troppi abeti per l’edilizia ma questi hanno radici superficiali, bisogna rivedere le politiche boschive...» si dice a un tavolo. Mentre fuori ricomincia a piovere.
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