Il vescovo di Pordenone: «C’è poca speranza, gli scontri tra giovani frutto del malessere»
Monsignor Giuseppe Pellegrini: «Il Vangelo indica la via, però ma chi è disposto a seguirla? Percepisco la fatica anche nella Chiesa, ma ha adottato un linguaggio nuovo»

La società è in crisi, gli scontri tra bande di giovani ne sono la dimostrazione. Le famiglie «hanno paura di impoverirsi», il lavoro c’è, ma i salari sono al palo. Sul fronte missionario, lasciato il Mozambico, si punta all’America Latina. Quanto alle vocazioni, «il momento è di fatica».
Se è vero che manca la speranza, «non si deve demordere, la soluzione c’è, il senso del Natale di Gesù».
Ne parliamo con il vescovo di Concordia-Pordenone, monsignor Giuseppe Pellegrini.
Il 28 dicembre la diocesi chiude il Giubileo. Ci può fare un bilancio?
«Ho un paragone con quello della Misericordia del 2016 quando indicammo più chiese giubilari e ogni unità pastorale si organizzava come riteneva opportuno. Quest’anno le porte sante erano meno e quindi il nostro segno unitario è stato il pellegrinaggio giubilare: per la pace a Madonna di Monte, per gli ammalati a San Vito e negli ospedali vecchio e nuovo, per la vita consacrata a Pordenone, per i detenuti a San Martino e in città, per i lavoratori nelle fabbriche. Mi hanno però colpito gli otto pellegrinaggi organizzati dalla pastorale sociale, che hanno toccato tutto il territorio diocesano. Le persone del luogo sono state coinvolte e protagoniste: ciò ha portato alla presa di coscienza dell’importanza di esserci, la corresponsabilità favorisce la partecipazione. A Roma, invece, le varie delegazioni hanno partecipato agli eventi dedicati ad adolescenti, giovani, famiglie, cori, imprenditori, consacrati. Ricordo le maree a Roma nel 2000, ma anche la singola persona che si mette in cammino e fa qualcosa per gli altri celebra un grande giubileo: è il segno più bello».
Parliamo del mondo del lavoro. Il costo della vita aumenta, gli stipendi no. Dal vostro osservatorio, cosa percepite?
«Ricordo la grande crisi economica di un decennio fa, le fabbriche che chiudevano, i lavoratori della Ideal Standard che andarono dal Papa, la crisi delle aziende del mobile. Allora c’era la paura di perdere il posto di lavoro, oggi quella di non arrivare col salario a fine mese e ce lo fa notare anche la Caritas. Anche molti italiani oggi hanno bisogno di un aiuto per pagare una bolletta, una settimana di spesa. Gli anni delle sette vacche grasse si sentono ancora in qualche famiglia, ma c’è la paura di impoverirsi. Una curiosità? Per fare un esempio, il compenso dei preti in un decennio è stato aggiornato di poco più di 30 euro».
La missione in Mozambico da lei avviata ha dovuto chiudere prima, col rientro di don Loris Vignandel e di don Lorenzo Barro. L’Isis ha reso pressoché improponibile restare. Conoscendo la sua sensibilità missionaria possiamo ritenere sia stato un grande dispiacere.
«Il modo di pensare alle missioni è cambiato. Oggi si parla di scambio e cooperazione tra le Chiese, che è ancora attivo. Abbiamo due seminaristi della diocesi di Nacala che studiano qui. Abbiamo consolidato l’amicizia. Ospitiamo anche due preti del Mozambico».
Sulle missioni ha qualche progetto nel cassetto?
«Direi un sogno: se saremo capaci di aprirci agli altri, donando qualcosa di noi stessi – per una diocesi vuol dire qualche prete – sono convinto che tornerà in bene e vocazioni. Più che all’Africa, per il 2027 penserei, se un paio di preti si farà avanti, a un’esperienza in America Latina. Sarebbe più facile per la lingua, spagnolo e portoghese, e per fare una esperienza anche con i laici».
Le vocazioni. Le prospettive quali sono?
«Nelle mani del Signore. In questi anni abbiamo avuto l’ingresso di gruppetti di giovani, ora viviamo un momento di fatica. Per un paio d’anni non entreranno seminaristi, occorrerà discernere assieme alla pastorale per le vocazioni, che comunque sta seminando».
Con 16 seminaristi l’autonomia della struttura sarà mantenuta?
«Quando arrivai in diocesi, quello di Pordenone era l’unico autonomo in regione. Poiché i laici possono frequentare l’istituto teolgico, i numeri danno maggiore sicurezza. Il problema, in realtà, è triveneto: quest’anno è partito un nuovo seminario interdiocesano tra Padova, Rovigo, Chioggia e Vicenza con 25 seminaristi».
Perché la crisi delle vocazioni?
«Le comunità cristiane sono sempre più fragili. Se non c’è fede, le vocazioni non maturano. I giovani vedono molte difficoltà e fatiche. L’obbedienza – nel mondo dell’io, dell’autonomia – viene vista con diffidenza. C’è pure la crisi del “per sempre” come si vede anche nella vocazione matrimoniale. Sempre meno coppie si sposano, un “per sempre” non fa più parte di una scelta di vita. Bello vedere i film dove si inginocchiano offrendo l’anello: ma quanto durano quelle promesse?»
Rapine, spaccio, risse tra bande di ragazzi. Un fenomeno nuovo, a Pordenone.
«Purtroppo Pordenone comincia a diventare un punto di incontro di altre microcriminalità, che occupano terreni inesplorati, campi liberi. È il segno di malessere della nostra società. Oggi è complicato capire il messaggio di Natale: Dio ha assunto tutta l’umanità nel suo figlio Gesù, ha preso le situazioni più complicate. Cosa si aspetta la gente dal Natale cristiano? Intanto, se lo aspetta ancora? O è solo festa, luci, come in altre culture. Bello spettacolo, ma è questo il Natale? Noi siamo sicuri che Gesù ci porta nelle strade del mondo: ma alla gente interessa? Non è pessimismo, ma la conseguenza è ciò che vediamo nelle strade. Non grande felicità».
Cito il Vangelo: così, da chi andremo?
«Difatti. Quando Gesù tornerà, troverà ancora fede? Ecco perché come Chiesa dobbiamo recuperare una relazione importante e personale con Gesù. La crisi della nostra società non è religiosa, ma di fede, di capacità di entrare in un’esperienza personale con Gesù. Perché i giovani accorrono alle Giornate della gioventù? Perché restano incantati dall’esperienza di preghiera e fede. Ripartiamo da qui, magari».
L’anno scorso sottolineava l’emergenza sanità, il diritto alla salute. Quest’anno ne vede altre?
«Quella della speranza. Non si spera più. Quella che nel passato ha creato le basi del benessere. Non si spera più, nemmeno come Chiesa. Abbiamo festeggiato i 60 anni del Concilio, dov’è andata quella speranza di una fede che si rinnova e si anima? Siamo distratti tanto che non ce ne accorgiamo».
Eccellenza, mancano poco più di mille giorni ai 75 anni, quando il Codice di diritto canonico impone a un vescovo di rimettere il mandato. Ha un progetto per la diocesi?
«Più che un progetto, un cantiere. Le idee ci sono, ma la realizzazione è complicata. Come una bella costruzione già approvata: ma se non ci sono gli operai... Il bel progetto è quello delle comunità pastorali, far sì che i preti e i laici abbandonino i piccoli confini parrocchiali. È necessaria una duplice testimonianza: quella dei preti nella fraternità tra di loro e una reale e non a parole dei laici che si impegnano per assumersi i loro ministeri e servizi. Portare a compimento questo progetto è difficile. La prospettiva non è solo più quella del parroco con alcuni bravi collaboratori, ma quella di più preti che vivono la comunione e la corresponsabilità con altri laici. Ciò è difficile perché ci sono molte resistenze».
Torniamo al Natale. La Chiesa sta mollando sui temi etici, sul suicidio assistito, sul consumismo, sui segni cristiani?
«No. Li proponiamo con un linguaggio che non va a graffiare perché sappiamo che molti altri non la pensano come noi. Chiedo rispetto per le mie idee e rispetto quelle degli altri. Non domandiamo perché si tolgono i presepi. Semplicemente ne facciamo due e qualcuno dirà: ah, c’è ancora un presepio. In questo tempo ho visitato più spesso gli ospedali: perché sono vicino al prossimo che soffre e dò testimonianza del bene che fa il personale sanitario».
Insomma, più fatti e meno parole.
«Dagli anni Settanta i tempi sono cambiati: continuare a fare battaglie per dividere non porta a nulla. Non sono cambiati i nostri principi: la Chiesa non è arretrata, ma avanzata. Gesù ha parlato a tutti, è stato con la samaritana, non è andato via. Nella società multireligiosa noi cristiani non siamo più capaci a dare la nostra testimonianza e ci pare strano un Benigni che in televisione parla di San Pietro. Ma è stato Gesù il primo a rompere le categorie».
La situazione internazionale è delicata e in diocesi è presente la Base di Aviano. Il primo gennaio si terrà la giornata mondiale per la pace con il messaggio chiaro e possiamo dire duro di papa Leone.
«Una pace disarmata e disarmante. Questo conferisce a ciascun soggetto le proprie responsabilità. La guerra è male, non dobbiamo avere paura di dirlo. La guerra è peccato. Usare le armi nei conflitti è altrettanto male, c’è una possibilità alternativa che è quella del dialogo. Dalla guerra ci guadagna solo l’industria delle armi».
Eccellenza, domani è Natale.
«Vorrei dare un messaggio di speranza. Oggi abbiamo bisogno di sperare in qualcosa. Gesù Cristo è la nostra proposta. Non si chiudano le porte in se stessi. È venuto in mezzo a noi e anche oggi torna, non ci lascia soli. Accoglierlo non è difficile. Auguro gioia e speranza in un avvenire più bello».
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto








