Vendita di animali rari, dubbi sui certificati: negozianti a processo

FAEDIS. È cominciato tutto con la morte di un camaleonte. Il proprietario, insospettitosi, si è rivolto ai carabinieri e questi hanno bussato alla porta del negozio di Faedis che glielo aveva venduto.
Era l’agosto del 2013 e a quella prima visita erano seguiti la perquisizione disposta dalla Procura e il sequestro di decine di animali di specie protette (ordinanza poi in parte annullata dal Riesame).
Per i titolari del negozio, i coniugi Desirèe Velliscig e Federico Salvador, 37enni, di Faedis, da quel momento è cominciato un calvario giudiziario che ha finito per approdare in tribunale.
A entrambi sono stati contestati sia la detenzione degli esemplari sequestrati, sia il maltrattamento di quelli tenuti nella loro abitazione, il falso e la frode nell’esercizio del commercio.
Il processo si svolge davanti al giudice monocratico di Udine, Carla Missera, che ieri ha rinvato le parti a novembre per sentire l’ultimo teste dell’accusa.
La loro colpa, secondo il pm Paola De Franceschi, che ha coordinato le indagini condotte, oltre che dai carabinieri della locale stazione, anche dalla polizia municipale di Faedis e dalla Forestale di Attimis e San Giorgio di Nogaro, sarebbe stata quella di detenere una serie di animali di specie protette senza la prescritta documentazione o, quantomeno, mancante, incompleta o inidonea all’identificazione e tracciabilità degli stessi.
Lungo, seppure ridotto rispetto alla formulazione originaria, l’elenco degli esemplari trovati nella loro abitazione: due testudo hermanni, diversi pappagalli (cacatua sulphurea, cenerini, parrocchetti cremisi) e due pitoni reali.
Quanto al negozio, l’accusa è che gli animali - nel capo d’imputazione resta traccia soltanto di un camaleonte calipratus e di due pappagalli inseparabili - fossero detenuti in assenza del relativo Registro.
Nel novero, anche un frosone e due fringuelli sprovvisti dell’anello identificativo della legittima provenienza da allevamento.
Sarebbero invece stati «plurimi» gli esemplari ceduti in vendita con certificati identificativi ritenuti falsi, in quanto formati e usati ai fini Cites omettendo l’indicazione ora del nome del ricevente o dell’esemplare, ora della data o della firma del ricevente e dei passaggi di proprietà.
Il presunto maltrattamento si riferisce alle condizoni in cui sarebbero stati mantenuti in casa tre pinscher, un bassotto, un rottweiler, un west terrier, un jack russel terrier, due anatre (muta e mandarina) e cinque pappagalli: «in luoghi angusti e bui – recita l’imputazione – con catene corte, in sovrannumero rispetto alla capienza delle gabbie o privi di acqua e cibo».
Ed è proprio questo uno dei punti più contestati dal difensore, avvocato Paolo Viezzi. «Negozio e abitazione, per la parte adibita a magazzino, erano soggette a verifiche annuali dell’Azienda sanitaria – afferma il legale – e anche l’ultima, effettuata un paio di mesi prima della perquisizione, aveva certificato il buono stato dei locali e del mantenimento degli animali».
A dibattimento, la difesa porterà inoltre la registrazione della conversazione tenuta dalla Polizia giudiziaria durante l’accertamento: effettuata a loro insaputa dai negozianti, dimostrerebbe il disaccordo tra gli agenti sull’irregolarità o meno di alcuni degli animali, attestando in tal modo l’insussistenza del reato.
«In aula – ha aggiunto Viezzi – produrrò il certificato Cites originale che ne giustifica la detenzione».
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