Va al bar in orario di lavoro: fu tentata truffa, anche se lieve

Fagagna, la Corte d’appello ha ribaltato la sentenza di assoluzione di un operaio. Il legale dell’azienda, avvocato Campeis: «Voleva vedersi la finale di calcio in tv»

FAGAGNA. Allontanarsi dal lavoro senza timbrare l’uscita, per andare al bar a guardare la partita di calcio, non integra il reato della truffa. Questo aveva stabilito il tribunale di Udine due anni fa, con l’assoluzione di un operaio della “Afg srl” di Fagagna, che la sera del 1° luglio 2012 si era assentato per circa un’ora dalla propria postazione, per seguire alla tv la finale degli Europei.

Il principio, fortemente contestato dall’azienda, è stato ora ribaltato dalla Corte d’appello di Trieste che, accogliendo la tesi del pm e della stessa parte civile, ha ritenuto sussistente la tentata truffa, chiudendo tuttavia il procedimento con sentenza di non punibilità «per tenuità del fatto».

La vicenda era già stata dibattuta in sede civile, con la causa avviata dal dipendente, il 28enne Raffaele Tam, di Codroipo, dopo il licenziamento deciso dalla ditta, alla quale era legato da un contratto di apprendistato di quattro anni.

Al dipendente, il giudice del lavoro aveva riconosciuto la formula del «licenziamento ritorsivo» con conseguente diritto a un risarcimento pari a poco meno di 40 mila euro. Un precedente che il titolare dell’azienda, Mauro Polano, aveva temuto potesse diventare motivo di emulazione per altri dipendenti e che lo aveva ulteriormente convinto a insistere in sede penale, seppure ai soli effetti della responsabilità civile, con l’impugnazione del verdetto di proscioglimento.

È stato l’avvocato Giuseppe Campeis a contestare punto per punto le conclusioni che avevano portato il giudice di primo grado ad accogliere la tesi della difesa, rappresentata dall’avvocato Bruno Malattia. Una tale impostazione – ha osservato – escluderebbe de facto l’ipotesi della truffa ogniqualvolta un dipendente abbandoni il posto di lavoro senza preoccuparsi di nascondere l’accaduto.

«Il tribunale ha ritenuto carente la prova del dolo – ha ricordato Campeis –, perchè l’obiettivo perseguito dal Tam con la propria condotta non sarebbe stato di lucrare indebitamente lo stipendio, ma semplicemente di assistere alla partita di calcio senza incorrere nelle rimostranze del datore di lavoro. L’imputato – ha aggiunto –, lungi dal riconoscere la propria responsabilità, aveva dichiarato di averlo fatto solo perchè aveva caldo, necessitava di rifocillarsi e il macchinario (quello cui era assegnato, ndr) non era funzionante». A fare cascare il palco è stata la testimonianza del collega cui, prima di uscire, disse di andare a vedere il match «perchè non riusciva a fare partire l’impianto».

Secondo il legale dell’azienda, insomma, Tam fece quanto nelle sue possibilità per farla franca. «Omise di timbrare l’uscita e fece pressioni sul proprio collega di reparto, affinchè mantenesse il silenzio».

Campeis ha inoltre evidenziato come il guasto alla macchina avrebbe dovuto imporgli di «porre in essere immediati interventi di ripristino» e non certo offrirgli una scusa per andarsene. Sotto il profilo giuridico, poi, ha argomentato come nel reato di truffa «la specifica finalità del comportamento sia priva di rilevanza» e come quindi, nel giudicare questo caso, «il tribunale abbia confuso il dolo con il movente».

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