Un vero self-made man con la religione del fare e senza peli sulla lingua

UDINE. «Lavorare, lavorare e lavorà». Era il suo motto, che ripeteva con ostinata convinzione. Due volte in italiano, l’ultima in marilenghe, per ribadire il concetto. Perchè Andrea Pittini, gemonese, classe 1930 (era nato il primo novembre, giorno dei Santi), sapeva cosa vuol dire lavorà.
Anche 15 ore al giorno. Lui c’era dentro la fabbrica, il suo regno. C’era a fare il giro dei reparti di prima mattina, talvolta all’alba, a parlare con gli uomini di cui si fidava, anche i vecchi operai che lì, in quei capannoni, avevano trascorso 40 anni di vita e con lui avevano condiviso gli inizi artigiani, poi il boom, la tragedia del terremoto e la nuova, definitiva, rinascita.
Un uomo senza peli sulla lingua, il Cavaliere. Diretto, talvolta ruvido come la carta vetrata, uno che l’esperienza se l’era fatta da ragazzino, nella palestra della vita. E che palestra, l’immediato Dopoguerra in Friuli. Macerie, paesi distrutti, fame e desolazione, i giovani che fuggivano nel mondo a cercare fortuna e i paesi dissanguati dalle forze migliori.
Lui aveva 16 anni, nessuna paura e tanto ingegno. Così si mise a raccogliere ferri vecchi con il carretto, perfino le schegge delle bombe che racimolava e poi rivendeva.
Alla fonderia Corbellini di Udine, a Bertoli e Safau. In poco tempo si era fatto un mestiere, era un self made man ante litteram, tanto che era riuscito a carpire i segreti e le qualità del rottame.
Su e giù per le borgate di Gemona e dintorni per rivenderlo, a seconda che fosse ferro o acciaio speciale, alle fonderie, ai battiferro, alle coltellerie di Maniago.
Il business del ferro era redditizio e così Pittini, con un socio, Sbuelz di Rizzolo, all’inizio degli anni Cinquanta mise sù la prima fabbrica. Uno stabilimento a dimensioni artigianali, a due passi da casa sua, a Gemona, per la trafilatura dell’acciaio.
Dopo qualche anno il trasferimento, causa proteste del vicinato per i rumori, a Rivoli di Osoppo, dove il colosso Pittini domina ancora oggi. Il Cavaliere fu il primo in Italia a realizzare tralicci e reti saldate per l’edilizia, prodotti che vende in tutto il mondo.
La fabbrica si ingrandì progressivamente, ma il 6 maggio 1976 il terremoto che distrusse il Friuli inferse gravi ferite anche alle aziende del gruppo. Ma la ricostruzione diventò per i dipendenti e per il territorio un punto di riferimento e di riscatto: tutto fu ricostruito e ingrandito seguendo le tecnologie più avanzate.
Nel 1979 il premio a tanto ardore imprenditoriale. Pittini divenne Cavaliere del Lavoro, un’onorificenza che gli conferì al Quirinale il presidente Sandro Pertini.
Da allora il gruppo siderurgico che porta il suo nome e che da ieri è orfano del suo fondatore, è diventato un gigante dell’economia del Friuli Venezia Giulia: 1.700 dipendenti, tre acciaierie e diversi stabilimenti in Italia e all’estero.
Un nome e credenziali importanti anche fuori dai confini nazionali, vista l’innovazione dei processi produttivi e le esportazioni in mezzo mondo.
Ma Pittini, nonostante il suo carattere a volte spigoloso, non facile al compromesso (memorabili furono le sue litigate con il commissario per la ricostruzione Zamberletti, come quest’ultimo raccontava), fu anche personaggio delle istituzioni confindustriali, visti i buoni rapporti che aveva con i colleghi, alcuni dei quali, come i Fantoni, erano suoi cugini.
Ma era ottimo amico anche del Cavaliere Rino Snaidero, di Luigi e Cecilia Danieli. Nel 1984 e per cinque anni, forte della rete di relazioni che aveva intessuto e della sua autorevolezza, raccolse l’eredità di Gianni Cogolo, del quale fu vicepresidente, al vertice di Confindustria Udine.
In quegli anni Pittini spinse l’Associazione all’espansione dell’export dei prodotti friulani, impegnandosi pure in una strenua difesa delle aziende sane che avevano attraversato periodi di temporanea crisi.
Nel 1989 passò il testimone all’industriale ed editore Carlo Emanuele Melzi. Negli anni Novanta e fino al 2002 resse anche le sorti di Confindustria del Friuli Venezia Giulia. Con i politici trattava senza timori reverenziali, fin dai tempi di Comelli e Biasutti. Relazioni franche e schiette, lontane dai bizantinismi.
Si definiva di centrodestra, vantava un’amicizia con Silvio Berlusconi, che in occasione degli 85 anni, gli inviò una lettera di auguri.
La vita gli riservò, tra i tanti successi, anche un grande dolore. La scomparsa, in un incidente con la moto del figlio primogenito Pietro, quello che da tutti era visto come l’erede designato dell’impero.
Tra le sue passioni, al di fuori della famiglia e del lavorà, la barca a vela, con la quale amava fare lunghi viaggi nel Mediterraneo, fino in Grecia, la caccia e il buon vino, che si era messo anche a produrre, nelle colline di Tarcento.
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