Un protagonista della politica

di Tommaso Cerno

La politica friulana gli appiccicò molte etichette. Vittorino il democristiano, cantore di Tiziano Tessitori, padre della Regione autonoma, suocero e non sempre facile amico. Vittorino il moroteo, estimatore e confidente di Piergiorgio Bressani e inventore del “suo” sindaco Angelo Candolini, che aiutò a prevalere sul rivale Paolo Braida creando il primo fenomeno di “politico mediatico” della storia udinese e friulana. E ancora Vittorino il cantore, cantore del presidente del Terremoto, Antonio Comelli, che gestì quella ricostruzione su cui Meloni rifondò il
Messaggero Veneto
, trasformandolo nella voce dei friulani.

Vittorino, il “fanfaniano” e grande amico di Antonio Bisaglia, che rinunciò nel 1987 al posto di sottosegretario in un governo balneare della Dc perché quel posto, in fondo, era meglio sentirselo offrire che poi, quattro mesi dopo, vederselo togliere. E poi ancora Vittorino il “biasuttiano”, quello che nel nome dell’innovazione politica a tutti i costi era pronto a sostituire i “padri” con i “figli” e lanciare anche in Friuli Venezia Giulia il dominio assoluto di Ciriaco De Mita.


Tante etichette, dunque. Tante leggende. Eppure mai a nessuno Vittorino Meloni confidò il proprio voto nell’urna durante le lunghe nottate di discussione all’hotel Astoria di piazza XX settembre, con i big e i peones della politica di casa nostra, che si alternavano sui divanetti del bar fino a fare le ore piccole. Né mai si intromise negli affari interni della Dc. Né tanto meno ebbe mai una tessera di partito, nemmeno quella con lo scudo crociato al centro. Né mai nessuno dei suoi amici-nemici della politica friulana ebbe l’onore di varcare la soglia di casa sua, in piazza Primo maggio, abbastanza in centro per seguire passo per passo le sorti della città che amava. E abbastanza distante dal Palazzo per restarne fuori, se gli comodava. Né si ricorda – fra pranzi e cene passati a discutere i destini del Friuli Venezia Giulia – una sola parola, anzi nemmeno mezza, pronunciata dal “Direttore”, come continuavano a chiamarlo anche gli amici, spesso rivolgendosi con il “Lei”, al tavolo dei notabili democristiani sul suo
Messaggero Veneto.


«Meloni era un giornalista prima di tutto – dice Adriano Biasutti –. La sua caratteristica principale è che era un uomo schivo. E che, pur potendolo fare, mai a nessuno di noi chiese favori o raccomandazioni per sé o per amici suoi. Gli piaceva la discussione alta, detestava la macelleria di partito».


E pensare che proprio a quell’Adriano Biasutti che sarebbe diventato nel 1984 il presidente di Regione più potente dell’era moderna friulana, non senza scossoni e terremoti politici nella equilibrata ma forse ormai superata Dc di Comelli, Meloni consigliò in tempi non sospetti un’altra carriera. Quella del giornalista. Proprio al
Messaggero Veneto
. Che era disposto, negli anni Settanta, a liberare una scrivania per quel giovanotto talentuoso di via San Rocco, in quel di Udine, che con piglio ribelle ma modi pacati cercava di tirare fuori la testa da sotto la sabbia. Un consiglio su cui Adriano, prima di consacrarsi alla politica attiva – grazie alla spinta dell’amico, allora, poi avversario, Giorgio Santuz – meditò piuttosto a lungo.


«Finché un giorno andai da Mario Toros», potente ministro della corrente di Forze Nuove, ma che con Vittorino Meloni non riuscì mai a legare davvero, anche se amico dell’editore d’allora Carlo Melzi, per via di una diversa – opposta forse – idea sull’autonomia regionale e sul suo padre fondatore, Tessitori. «Entrai e gli chiesi un consiglio. E Toros rispose che se volevo fare politica attiva era meglio che la facessi direttamente candidandomi». E così fu.


Dei grandi della politica italiana aveva un’idea precisa. E difficilmente modificabile. Amico personale di Amintore Fanfani, praticamente l’unico “notabile” vicino a quella corrente dc in regione, ma amico anche di Loris Fortuna. Di De Mita non amava i modi, di Andreotti non si fidava fino in fondo. Sotto sotto, invece, ammirava Craxi, il decisionista che avrebbe cambiato non solo il Psi, ma anche la Dc. «Meloni non era uno che si fossilizzava su di noi – racconta Giorgio Santuz, due volte ministro, cinque volte sottosegretario, ventidue anni in Parlamento nelle file della Dc –. Amava tutto ciò che era giovane e nuovo. Se c’era uno nella Dc che aveva voglia di fare, e magari a noi vecchi poteva starci anche antipatico, beh stai sicuro che Meloni lo lanciava. Gli piaceva riformare. Era uno che guardava avanti. E infatti scommise su di noi dopo Comelli, che non era poi una cosa scontata».


Il suo Friuli, nella continua dialettica – a volte dura – con Trieste, era e restava un pezzo di Italia. Ed è anche per questo che con i movimenti autonomisti, friulanisti in primis, ebbe sempre rapporti conflittuali. La sua era una missione di confine, ma nazionale. Il messaggio di Tessitori pretendeva, secondo Meloni, che fossero i partiti politici dell’arco costituzionale a farsi carico di certe battaglie. E non i movimenti di popolo. Una sera, sotto Ferragosto, un giornalista del
Corriere
che passava per Udine lo ferma in centro e gli chiede: «Direttore, come va da queste parti?». E la risposta fu immediata: «Io sono qui, come a Mogadiscio. Aspetto la bianca nave postale. Sul confine. Che attendo notizie. Importanti».


E se il cuore batteva allo stesso ritmo della Dc, «perché lui credeva in quel grande partito popolare che era nato da De Gasperi e voleva cambiare con tutti i suoi limiti l’Italia», aggiunge Biasutti, aveva dentro una grande laicità. «E non era certo un clericale», aggiunge Santuz. Tutt’altro. Fra i suoi “confidenti”, c’erano i socialisti e i socialdemocratici. Così come, pur anticomunista viscerale, dava e otteneva rispetto dalla gerarchia del Pci, Arnaldo Baracetti in testa.


E in quelle lunghe discussioni con Loris Fortuna e Aldo Gabriele Renzulli, altro protagonista delle serate dell’Astoria, emergeva l’anima combattente del “Direttore”, «uno che andava bene a tutte le forze politiche – sintetizza Biasutti - forse perché in fondo non andava bene a nessuno. Ed era cioè autonomo».


Al bar dell’albergo più famoso di Udine si beveva quasi sempre champagne. Alla faccia del Collio friulano e della Doc della Grave. «Ma nessuno lo ordinava mai in maniera esplicita», racconta Renzulli. Quando si affacciava Martino, che era il barman durante la storica gestione di Gallinari, la formula convenuta era in codice: «Per cortesia ci dia un conforto». Un conforto alla conversazione, allargata a chi si aggiungeva, nel corso della serata. Da Santuz al nottambulo impenitente Candolini, a Missera, a Biasutti e al leader dei socialdemocratici Adino Cisilino. Poi ogni tanto Danilo Bertoli. E ancora, quando il Psi tornava al governo, il neosegretario Gianni Bravo, potente presidente della Camera di commercio e inventore del Made in Friuli, e un giovane promettente Ferruccio Saro, che aveva lasciato la corrente di sinistra del Garofano per sposare prima Renzulli poi De Carli. Mai si vide invece in quelle sale Bressani. Assolutamente mai Toros.


Amici-nemici. Diversi da lui. Gente che stimava, ma con cui mai si mescolò. Né in Friuli, dove evitò accuratamente le sedi di partito preferendo alle poltrone il suo divano dell’Astoria. Nè a Roma, dove scendeva con regolarità, sempre all’hotel Excelsior, senza mai essere tradito dal suo “fiuto”, se si pensa che evitò scientificamente incontri e colloqui con un compagno di albergo come Licio Gelli.

La leggenda democristiana vuole che, nell’era di Meloni, perfino dai necrologi sul giornale si derivassero i rigurgiti interni al ventre della Balena Bianca. Fra i bizantinismi più o meno fiabeschi di una Prima Repubblica che sembra poi meno lontana di quanto in effetti ormai sia, «quando moriva un amico – racconta Biasutti – eravamo noi della corrente di Forze Nuove a scrivere il necrologio a pagamento e mettere i nomi dei dirigenti. Si partiva sempre col capo, che era Toros. Poi veniva Santuz, poi gli assessori regionali, poi io che ero segretario. E Meloni li leggeva attentamente. Sempre. E poi ci diceva: ma allora, tizio è sceso? Oppure, tizio è salito? Sempre sorridendo come faceva lui. Ma questa storia della “nomenklatura” era a metà fra la realtà e la leggenda. Il fatto era che Meloni era interessato alla vita politica in maniera curiosa e giornalistica. Io arguisco che possa anche averci votato. Ma se mi dicessero che non è mai stato così, non faticherei a crederlo».


Provocazioni pubbliche, dunque, scambi di opinioni e di accuse reciproche fra un direttore e una classe politica che avevano un compito forse in parte comune: fare crescere un territorio, fare crescere il suo giornale. Con le giuste contrapposizioni e con i logici “prestiti”, legati a un’idea di autonomia – quella di Meloni, ma anche quella dell’asse Dc-Psi – che non poteva prescindere dall’unità regionale, diversamente dal Movimento Friuli. E questo perché figlia proprio della battaglia di Tessitori per la nascita della Regione, quel Tessitori, padre di sua moglie, che più per realismo che per convinzione accettò il Friuli-Venezia Giulia, che allora si scriveva con il trattino, abbandonando l’idea del Friuli e basta. Un’idea questa che, pur portando a scontri con gli autonomisti, coi comunisti e con certe correnti della Chiesa, gli valse però l’amicizia con Gino Di Caporiacco.


Di che partito era, dunque, Vittorino Meloni? «Lui amava definirsi del partito della Ragione – rivela Renzulli –. Significava il partito delle persone che avevano le caratteristiche minime necessarie: intelligenza, preparazione, e anche equilibrio».


Finché la poltrona di Meloni trema. Trema sotto i colpi di una proprietà che passa di mano. Dall’imprenditore Lino Zanussi al suo “successore” Lamberto Mazza, l’uomo che prende le redini del colosso industriale pordenonese dopo la morte del capostipite e che con Vittorino Meloni non lega. Saranno mesi difficili, fino all’ingresso di Carlo Emanuele Melzi. Mesi in cui la politica, in effetti, aiuta Meloni a restare in sella. Ma perché lo fa? Amicizia? No. È quel rapporto complesso con il territorio, nato col terremoto, cresciuto con l’industrializzazione, che spinge gli udinesi a fare quadrato e difendere il direttore. «Non era un favore alla persona – raccontano gli ex Dc e gli ex Psi –, ma un segnale forte che si alzò da Udine, in difesa dell’autonomia del territorio che veniva intaccata anche simbolicamente».


Ma che non poteva durare in eterno, soprattutto dopo che Melzi, che per anni si era affidato ciecamente a lui, restandosene chiuso nella sua villa di Fusine, morta la madre scende in città. Incoronato, su consiglio del cavalier Andrea Pittini, presidente degli Industriali. Un ingresso dentro porta che modifica, in pochi mesi, i rapporti con Meloni. E con la Dc. E infatti è a quegli stessi “amici-nemici” dello Scudo crociato che Vittorino Meloni rivolge l’accusa più pesante. Quella di avere messo fine, all’improvviso, nel 1992, alla sua carriera di direttore. Accuse che Meloni non pronunciò mai. Né rivolse direttamente. Ma che nella vecchia Dc, che stava per offrirgli un seggio al Senato alle elezioni (quello che sarebbe dovuto spettare ad Angelo Candolini, prematuramente scomparso), riecheggiano ancora. Come finale non lieto di un legame che forse fu più distaccato di quello che le leggende vogliono far credere.


Poi Tangentopoli. Gli passò a fianco senza nemmeno sfiorarlo. Anzi, quasi una nemesi per il maître-à-penser del pentapartito, la sua uscita dal Messaggero Veneto corrispose alla fine della Dc e del Psi. Improvvisamente i grandi e piccoli personaggi della politica che Meloni aveva raccontato per decenni, nel bene e nel male, finiscono. Finiscono in manette o, comunque, travolti dall’onda lunga di un’Italia ribelle che si affidava in quei mesi alla Lega Nord, prima, e a Berlusconi poi, chiedendo a gran voce di voltare pagina. E lui, pur non amando la Seconda Repubblica, legato com’era all’idea di una democrazia partitica, né gradendo del tutto la scalata del Cavaliere che sfila a Craxi il leaderismo appena coniato dal Psi (a un prezzo troppo alto, secondo Meloni) segue tutti i movimenti sotterranei e non che caratterizzano il passaggio alla nuova era.


Solitario, le estati a Nimis, gli inverni in città, sembra sposare a un certo punto il progetto neo-autonomista di Sergio Cecotti, leghista anomalo emerso all’improvviso, cui Meloni fa un’apertura di credito. Destinata, tuttavia, a durare poco. E a finire quando l’ex presidente della giunta rifiuta un progetto di governo per inseguire la via solitaria dell’autonomismo friulano a tutti i costi. Una sorte simile tocca a Riccardo Illy, altro enfant prodige del nuovo corso, che Meloni critica non tanto per la scelta del centro-sinistra, che anzi per certi aspetti lo nobilitava ai suoi occhi, quanto per una certa “somiglianza”, andava ripetendo, con quel Berlusconi che non lo aveva mai convinto del tutto, pur convinto che il berlusconismo era e sarebbe rimasto per anni un “male” necessario al Paese.

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