Un obitorio a cielo aperto tra le vetrine del centro: passiamo davanti a decine di epigrafi, coi volti di chi non abbiamo potuto salutare

PORDENONE. Non li abbiamo visti andarsene, non ne abbiamo sentito le voci. Ci passiamo davanti ogni mattina e li guardiamo, chi allungando il passo, chi recitando una preghiera silente, chi assorto nei suoi pensieri o rapito dallo schermo di uno smartphone.

Transitiamo, gettiamo un’occhiata a quei muri e li vediamo riempirsi giorno dopo giorno, volto dopo volto. Fino a traboccare, in maniera irrimediabilmente volgare, di epigrafi ammassate e ricordi in equilibro sui residuali centimetri di spazi divenuti inadeguati.

Donne e uomini delle nostre generazioni, della terra che abbiamo imparato ad amare. Figli e nipoti che li piangono, marciapiedi che non udranno più i loro passi. Una sorta di obitorio a cielo aperto tra le vetrine dei corsi, succursale di quello reale, stipato dei sacchi azzurri di chi muore di Covid, tra locali angusti e barelle attrezzate che non bastano più.

Le epigrafi sulle colonne e le vetrine del centro di Pordenone
Le epigrafi sulle colonne e le vetrine del centro di Pordenone


È una guerra che non vediamo, che non riversa bombe sulle nostre strade perché non ne ha bisogno, per mostrarci la potenza del nemico. Un dolore sordo, continuo, crescente, per cui non troviamo dispositivi di protezione.

Mutilati nelle famiglie, nei settori produttivi, nel tessuto delle relazioni che hanno fatto crescere la nostra città e i nostri paesi, cerchiamo solo il fondo della piscina. Qualcosa che ci consenta di passare alla fase successiva, a una ricostruzione interiore, prima ancora che economica e sociale. Il nostro dopoguerra, il dopo pandemia, il dopo ognuna delle cose che siamo stati chiamati a sopportare e ad arginare per poterci permettere un futuro. Un dopo, finalmente.

Covid, cosa dicono i dati del monitoraggio Gimbe: il Friuli ancora nel quadrante peggiore, gli ospedali sono sotto pressione

E il primo passo, lungo questo nuovo sentiero, forse dovremo muoverlo proprio da qui: dal luogo da cui vorremmo fuggire. Dalle immagini che oggi facciamo fatica a guardare. Dai volti di chi non ce l’ha fatta a coniugare al futuro vaccino e speranza.

Perché queste donne e questi uomini ci affidano un mandato: non lasciare che il loro sacrificio sia stato vano e le loro storie disperse. Che le generazioni successive rinuncino a far tesoro di questa esperienza. Ci chiedono di capire che la vita non è un diritto alla felicità gratuita e permanente e che dare senso ai giorni che ci sono concessi è, a suo modo, un vaccino contro i rimpianti del tempo perduto.

Torneremo a passeggiare, fra le strade che amiamo, con i corsi di nuovo popolati e i locali aperti. Con i sorrisi e la voglia di ricominciare. Oltre il dolore, con tanta fatica, ma anche con lo sguardo rivolto al domani.

E quando torneremo a guardare verso quelle colonne ricorderemo i giorni in cui ci si fermava il cuore, a transitarci davanti, mentre i passi proseguivano verso un futuro ancora tutto da immaginare.

Argomenti:coronavirus

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto