Udine e «I figli del partito»: l’odissea di Anita Galliussi

UDINE. È il primo novembre 1945. Anita cammina assieme alla mamma nelle strade deserte di Udine, la sua città dove non tornava da 14 anni. Vanno in viale Vat dalla nonna e la trovano nel giardino mentre cura le piante.
«Dov’è Santin?» chiese subito la mamma. «Non lo sapete? Santin non c’è più». Come imbambolate, mamma e figlia si dirigono allora nel cimitero di San Vito per cercare la tomba.
Sulla lapide nome e cognome (Sante Galliussi) e due date: 6 dicembre 1900-3 febbraio 1943.
Si chiude così, in un giorno che evoca un lontano inizio di novembre, un libro che pochi conoscono, di cui si è persa traccia e che appare straordinario per come e cosa racconta.
Un libro che riguarda tantissimo Udine. Fu pubblicato mezzo secolo fa, nel 1966, dalla casa editrice Vallecchi. Si intitolava «I figli del partito», con prefazione di Ignazio Silone.
Ci fu una seconda edizione da parte della Bietti, ma poi calò il silenzio e per leggerlo esiste solo una copia nella Biblioteca Joppi oppure bisogna cercare nei circuiti dell’usato. Lo spunto per riparlarne parte da un recente libro di Massimo Cirri, «Un’altra parte del mondo».
Narra la drammatica vicenda di Aldo Togliatti, figlio di Palmiro, che seguì il padre e la madre Rita Montagnana in Unione Sovietica per sfuggire al fascismo.
Assieme ai figli di altri capi e attivisti rivoluzionari di tutto il mondo, fu inviato in una scuola speciale a Ivanovo che impartiva un insegnamento politico e tecnico ai futuri quadri comunisti da destinare in ogni continente.
Aldo era uno spirito sensibile, fragile, e pagò tutto fino in fondo. Al ritorno in Italia non resse al cambiamento e concluse la sua vita con trent’anni di ricovero in una casa di cura a Modena.
Tra i giovani con cui entrò in contatto in Russia c’era l’udinese Anita Galliussi, che a sua volta svelò la propria esperienza ne «I figli del partito», racconto sorprendente e struggente.
Un diario minuzioso arricchito dalle lettere che il padre Santin le spediva dall’Italia. Era un fabbro con officina in via Albona, laterale di via Cividale, e come dirigente del partito comunista fu perseguitato dai fascisti e arrestato, mandato al confino e poi condannato a 11 anni.
Morì nel 1943 di malattia, pochi giorni dopo essere uscito dal carcere. I suoi funerali si trasformarono in una clamorosa manifestazione contro fascisti e nazisti. In centinaia sfilarono a Udine con un garofano rosso.
Per proteggerle, nel 1931 il partito decise che moglie e figlia di Santin dovessero espatriare clandestinamente prima a Parigi e poi a Mosca dove Anita, nata nel 1925, arrivò nel 1931 venendo mandata in una scuola lontano dalla capitale mentre la mamma ebbe un lavoro in fabbrica.
Narra Anita, bambina finita nel gioco crudele della politica: «Ricordo la prima visita della mamma, in pieno inverno. Arrivò con la slitta tirata da un cavallo, la stessa che ci portava le provviste dalla città. Quel rivederci dopo tre mesi fu un avvenimento inquietante. Io non capivo più una parola di italiano e d’altra parte la mamma non capiva nulla di quello che balbettavo in russo. Alla fine ci mettemmo a piangere».
Una donna e una piccolina da sole, in quell’universo gelido, legate dal filo dell’amore e dalle lettere che Santin spediva loro. Questa è la storia della coraggiosa Anita che, finite le elementari, andò a Ivanovo dove conobbe Aldo Togliatti e i figli di Tito, Ciu En Lai, Dolores Ibarruri e di altri capi comunisti.
«Sulle scuole russe per stranieri – scrisse Silone – la testimonianza di Anita mi pare la più ampia e sincera. A differenza di altri, racconta solo quello che ha personalmente conosciuto, dal di dentro, astenendosi da ogni generalizzazione. Per quei ragazzi, il ricovero in un collegio russo era la stazione finale di una serie di fughe e paure. Ma erano diventati una materia plastica quasi priva di riflessi di difesa».
Invece la ragazzina udinese non si fece travolgere rimanendo serena e vivace. Infine andò a vivere a Mosca con la madre in una stanza di otto metri quadri, divenendo segretaria di Togliatti prima che nel 1943 fosse inviato in Italia.
Lui studiava l’inglese e pareva titubante sul ritorno, finchè nel 1943 Stalin lo obbligò a partire. E Anita ci offre al riguardo una testimonianza interessante.
Intanto dal padre nessuna notizia, mentre scriveva lettere che lui mai riceverà. In una disse: «Viva il sole. Abbasso l’oscurità e il freddo».
A guerra conclusa, il ritorno in Italia non è immediato. Anita può partire assieme alla mamma solo in ottobre arrivando a Udine proprio il primo novembre quando apprende che Santin è morto.
Ma lei non resta in Friuli e con un camion della polizia partigiana raggiunge Roma dove la aspetta Togliatti per altri incarichi. Anita Galliussi è morta a Roma nel settembre del 2012 dopo una vita di impegno politico e familiare.
Sposò Giulio Seniga, personaggio che merita un altro romanzo. Marito e moglie lasciarono il Pci nel 1954 in polemica con Togliatti e la casta (la chiamavano così) che guidava il partito.
Nel 1956 organizzarono persino un volantinaggio alla Camera contro i dirigenti comunisti. Dentro di lei, socialista libertaria, custodì l’atroce dubbio che il partito non avesse fatto abbastanza per salvare Santin. Uno strazio infinito, ma anche la spinta per andare avanti, combattere e scrivere il libro.
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