Tradizione antica che si tramanda di madre in figlia

UDINE. La storia degli Scarpèts si perde indietro nel tempo. Di secoli e secoli. Tramandata di madre in figlia da sapere famigliare qual era. Cultura “bassa” poco documentata se non in tempi recenti. Sono le scarpe della tradizione friulana. Realizzate dalle donne e per lungo tempo interpretate alla stregua di un biglietto da visita per quelle in età da marito. Erano le scarpe della festa. L’alternativa agli zoccoli usati per le attività di fatica. Le si calzava per andare a messa.
E le si faceva calzare ai bambini. «Ogni primo passo è stato sorretto dalle mille cuciture che mamme e nonne hanno trasferito sulle tele sovrapposte, ricavate dalle lenzuola dei loro antenati, per costruire una speciale suolina e una graziosa tomaia, che unite formavano “Il Scarpetut del canai”» racconta sul suo profilo Facebook l’associazione Amici della Val d’Arzino a proposito delle pantofoline.
Tanto presenti nella quotidianità della gente friulana da diventare protagoniste di più d’un motto popolare. «A l’ha tirat sui i scarpez» si diceva in Friuli per annunciare un decesso. E ancora, per sdrammatizzare il ciclo dell’esistenza umana: «Il mont a l’è fat a scarpet. Cui li giava, cui li met».
Da oggetto famigliare, intriso di sapere e affetto, gli Stafes (altro nome per indicare i Scarpèts) sono divenuti col passare del tempo oggetti di uso comune anche fuori dal Friuli. Secondo alcuni fu Jacopo Linussio (1691-1747) a esportarli, insieme alle sete che faceva tessere nella sua Carnia, “infilandole” ai piedi dei gondolieri veneziani che non se le sono più tolte traendo in inganno circa l’origine della scarpa. Nata non in Veneto, ma in Friuli.
Da dove però è uscita ben presto. Nel ’500 finì ai piedi del doge di Venezia, Sebastiano Venier, che calzando Scarpèts vinse la battaglia di Lepanto (1571) nella guerra contro i Turchi. Non poteva indossare gli stivali per via di una gotta e li sostituì con la scarpa friulana. Chiamata, a seconda del periodo storico e delle zone, in modo diverso: Furlana, Stafet o Scarpet.
«Erano scarpe nate nella miseria usando tessuti di recupero – racconta Nicoletta Dileno di Cencetak –, confezionate dalle donne in casa, nel tempo libero davanti al focolare nelle fredde sere d’inverno o al caldo nelle stalle durante il rosario serale o ancora al pascolo in montagna. Forti, capaci di portare avanti da sole la famiglia in tempo di guerra, le donne ritrovavano tutta la loro delicatezza nel ricamare gli scarpèts con fiori diversi da vallata a vallata».
La suola era realizzata con pezze di stoffe ricavate da vecchie lenzuola di lino o canapa. Ne servivano almeno 20 per suola. Andavano sovrapposte, quindi imbastite e tagliate, infine cucite con l’aiuto di una pinza. Si costruiva quindi la tomaia, generalmente in velluto nero, e si univano le due parti. In tempi più recenti le lenzuola sono state sostituite dai tubolari delle biciclette.
Piccoli adattamenti che hanno consentito alle scarpette di superare la prova del tempo arrivando ai giorni nostri. Peccato i tanti calzaturifici di cui era ricco il Friuli fino a qualche anno fa abbiano progressivamente chiuso i battenti, schiacciati dalle scarpe a basso costo (e qualità) realizzate nell’Est Europa. Ormai resistono in pochi, tra San Daniele, Gonars, la Carnia e Claut.
Aziende che realizzano scarpe tradizionali e contemporanee. Per i friulani e anche per i veneti che al solito le vendono, ma a farsele produrre vengono ancora a casa nostra. Lì dove il sapere si conserva. Dove progetti come Cencetak tentano di valorizzarne la tradizione, alimentandola affinché non si disperda, schiacciata da produzioni di massa senza identità. (m.d.c.)
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