Suicida a 30 anni perché precario, la lettera del padre un anno dopo

UDINE. Michele il 31 gennaio di un anno si tolse la vita perché frustrato dalla lunga, e vana, ricerca di un lavoro. Aveva trent’anni.
Un anno fa i suoi genitori affidarono al Messaggero Veneto il compito di pubblicare la lettera d’addio di Michele. «Un ragazzo della generazione perduta che ha vissuto come sconfitta personale quella che per noi è invece la sconfitta di una società moribonda, che divora i suoi figli», dissero i suoi genitori. A un anno da quella tragedia il padre lo ricorda.
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31 gennaio 2018, il primo anniversario della morte del mio unico figlio, Michele, e ne scrivo, con il cuore straziato, per rendergli onore, ricordando che il gesto estremo che ha compiuto è stato il suo modo di esprimere una giustificata ribellione, una disperata dichiarazione di rivolta contro un sistema economico iniquo e immorale che rifiuta di dare ai suoi figli più giovani ciò che è loro dovuto: un lavoro innanzitutto, per sperare nel futuro, rispetto e ruolo sociale, dignità e cittadinanza attiva.
Questo chiedeva mio figlio per sè e per quelli della sua generazione disillusa dalle tante promesse mancate, emarginata e costretta ad espatriare, umiliata da compensi indecenti quando trova un lavoro precario, in definitiva perduta, rispetto al riconoscimento che le spetta, per responsabilità di un mercato del lavoro che pratica senza vergogna la logica del rifiuto.
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Scriveva mio figlio nella sua lettera di commiato da questo mondo: «Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro inutili, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, stufo di far buon viso a pessima sorte». Io, suo padre, come lui accuso il sistema «che non premia i talenti, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni», io, suo padre, accuso questo sistema di istigare al suicidio chi non ha la forza di reggere alla sistematica politica dell’emarginazione giovanile.
«Di no come risposta non si vive, di no come risposta si muore», scriveva Michele dando seguito alla sua disperazione con l’estremo gesto di rivolta. E dopo un anno, sono furioso per il lutto impossibile da sopportare, perché oggi più che mai si riapre una ferita che il tempo non cicatrizza e sono così stanco di essere stanco anche se amici ed amiche sono vicini e sorvegliano con discrezione partecipata questa agonia.
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Ringraziamo chi, in questo anno terribile, ha dato sostegno e partecipazione: gli amici e le amiche di Michele, che lo hanno raccontato anche in aspetti che non conoscevo, i tanti sconosciuti che, lasciando sulla sua tomba lettere, biglietti, messaggi, fiori, hanno dimostrato comprensione ed affetto: nell’impossibilità di raggiungerli, grazie.
Voglio ringraziare il sociologo Domenico De Masi, lo storico Angelo D’Orsi, Alberto Travain del Fogolar Civic di Udine per aver pubblicamente riconosciuto il significato del gesto di Michele, che fino alla fine ha rivendicato l’esigenza di potersi esprimere attraverso un fattivo ruolo sociale. Grazie a loro, a chi ha manifestato vicinanza, a chi ha recato conforto, Michele è ancora vivo.
Roberto V.
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